Com’è noto, Goethe ebbe una fase romantica che coincise con
l’adesione allo “Sturm und Drang” (tempesta e impeto). E’ la stagione giovanile
del “Werther”. Successivamente egli si distaccò dal movimento romantico e
assunse verso di esso un atteggiamento severo di dissenso quando non polemico.
Goethe aveva scelto definitivamente il contenimento “classico “ delle passioni,
il controllo sapiente delle emozioni, l’irreggimentazione colta della
sensibilità. Occorre, secondo lui, saper accettare i limiti della finitezza,
anche filistea (Goethe fu responsabile a Weimar di una miniera a comprova che
“si può essere poeti e pagare l’affitto”, come diceva Paul Valéry). Ma al di là
delle formule stilistico-epocali (classicismo, romanticismo) resta la sostanza
morale del suo atteggiamento.
Ancora oggi, attorno a noi, vi sono individui che vivono senza rete, sfrenatamente, "romanticamente", le proprie passioni, in una permanente dilatazione del proprio Io nel mondo, facendo strame di ogni confine, sfidando ogni infinito, rifiutandosi di vivere nella finitezza di ogni limite, limite che potrebbe essere (faccio solo alcuni esempi) una vita stabile di coppia, anche un lavoro ordinario e senza ambizioni tranne quella di un dovere assennatamente ed esattamente compiuto. E’ il limite, il finito e la finitezza, che soli ti possono dare il brivido dell’infinito, dell’illimitato. Fanno bene, fanno male i “romantici”? Nessuno può dire quale delle due opzioni di vita sia la migliore. La penso come Moravia: una vita vale l’altra, perché in fondo son tutte sbagliate. C’è un “però” ampiamente verificato: che spesso i fallimenti dei “romantici” li pagano gli altri, i prossimi, i parenti, i congiunti, i figli, tutti coloro che non hanno dilapidato il loro capitale emotivo e come diceva Orazio con la sua formula del "sibi constet", sono rimasti in sé, non sono usciti fuori da/di sé, chiusi nell'ambito di un assennato, "classico", filisteo, "umano troppo umano" recinto di esistenza ordinaria. E spesso sono conti salatissimi che si pagano a rate tutta la vita.
Ancora oggi, attorno a noi, vi sono individui che vivono senza rete, sfrenatamente, "romanticamente", le proprie passioni, in una permanente dilatazione del proprio Io nel mondo, facendo strame di ogni confine, sfidando ogni infinito, rifiutandosi di vivere nella finitezza di ogni limite, limite che potrebbe essere (faccio solo alcuni esempi) una vita stabile di coppia, anche un lavoro ordinario e senza ambizioni tranne quella di un dovere assennatamente ed esattamente compiuto. E’ il limite, il finito e la finitezza, che soli ti possono dare il brivido dell’infinito, dell’illimitato. Fanno bene, fanno male i “romantici”? Nessuno può dire quale delle due opzioni di vita sia la migliore. La penso come Moravia: una vita vale l’altra, perché in fondo son tutte sbagliate. C’è un “però” ampiamente verificato: che spesso i fallimenti dei “romantici” li pagano gli altri, i prossimi, i parenti, i congiunti, i figli, tutti coloro che non hanno dilapidato il loro capitale emotivo e come diceva Orazio con la sua formula del "sibi constet", sono rimasti in sé, non sono usciti fuori da/di sé, chiusi nell'ambito di un assennato, "classico", filisteo, "umano troppo umano" recinto di esistenza ordinaria. E spesso sono conti salatissimi che si pagano a rate tutta la vita.
Nessun commento:
Posta un commento