Gedaliahu G. Stroumsa |
I sociologi, che ci hanno abituati a ragionare
di radicalismo religioso, sembrano utilizzare il termine in un senso abbastanza
restrittivo. Secondo una definizione recente, si tratta «di un modo di pensare
e agire che implica, soprattutto, il
rifiuto delle forme culturali e dei valori percepiti come non originari (o inautentici) della
tradizione religiosa». Tale definizione è forse valida nel caso di alcune
correnti contemporanee nell'ambito delle religioni tradizionali, ma è
inutilizzabile per l'analisi dei movimenti religiosi nuovi, che respingono spesso,
alla loro nascita, la tradizione da cui emergono. Tale è il caso,
effettivamente, del cristianesimo primitivo. Benché il carattere radicale o
rivoluzionario del cristianesimo nascente sia spesso riconosciuto, ho l'impressione che
non sia stato ancora analizzato in modo sufficientemente preciso. Ciò è dovuto,
certamente, al fatto che questo carattere è percepito soltanto in bonam partem [per sommi capi], e che
si ignorano di solito le serie ambiguità e tensioni nella struttura profonda
della nuova religione. Uno studio «unparteilich»[imparziale], del cristianesimo
antico, di cui sognavano gli scienziati del diciannovesimo secolo, è ancora
all'ordine del giorno. Così il radicalismo cristiano, che proviene dall'idea
d'amore, può essere definito in opposizione diretta all'estremismo, o ancora,
secondo Gerd Theissen, il cristianesimo nelle sue prime fasi rappresenta una
rivoluzione nei valori (Wertrevolution),
fondamentalmente diversa da una rivoluzione politica, alla ricerca del potere e
per tale ragione generatrice di violenza.
Il presente studio vuole richiamare
l'attenzione su alcune strutture teologiche del cristianesimo antico, strutture
inerenti ai testi fondatori e sulle loro trasformazioni durante i primi secoli.
Si tratta naturalmente di storia intellettuale piuttosto che di storia sociale,
ma fondata sull'idea, di cui Michel Foucault è stato recentemente uno dei patrocinatori
più entusiasti, che il discorso pubblico
di una religione o di una cultura è direttamente legato alla pratica del
potere. Foucault come risaputo, sviluppò tardi un interesse profondo per il cristianesimo
antico, e la sua ricerca su questo campo è rimasta incompiuta. Occorre notare
qui che la correlazione tra concezioni teologiche (o legislative) e la pratica
è lungi dall'essere diretta e totale. Lo storico sociale sa a che punto i
comportamenti sono diversi dai principi proclamati. Così un restringimento dei margini di tolleranza
dei non cristiani (pagani ed ebrei), e più ancora, degli eretici, nella società
cristianizzata della tarda antichità, non
implica necessariamente la loro
esclusione dai contatti giornalieri. E tuttavia, le tendenze son là, a spiegare come l'equilibrio nuovo, instabile e
precario, poté degenerare.
Certamente, tale ricerca corre il rischio di anacronismo:
quando parliamo di tolleranza o di intolleranza religiosa, imponiamo categorie
moderne su una società per la quale sono inadeguate. La più grande prudenza è
qui di rigore, ma resta il fatto che le società antiche permettono, secondo la
loro evoluzione, una maggiore o minore libertà religiosa, individuale o
collettiva, come pure una libertà d'espressione. A questo riguardo, non c’è
alcun dubbio che l’insorgenza del cristianesimo fece la differenza sostanziale.
A.D. Nock ha mostrato nel suo studio classico sull'idea di conversione che nel
mondo ellenistico delle possibilità nuove d'espressione del sentimento religioso e dell'identità religiosa
si erano stabilite sul piano della scelta individuale piuttosto che sulle
frontiere sicure e riconosciute dell’ethnos
e della tradizione, ossia l’esclusivismo polimorfo delle religioni arcaiche, ivi
compresa quella di Israele. Per Nock, il
cristianesimo fondato sulla necessità della conversione, la scelta
della fede presso ogni individuo senza riferimento all'identità etnica, alla
classe sociale o al sesso, rappresentava l'esempio principale del nuovo
atteggiamento. John North ha recentemente descritto il mondo mediterraneo,
sotto l'impero romano, come un vasto supermercato delle religioni. In un certo senso,
la vittoria del cristianesimo riflette quella del più forte nel nuovo mondo del pluralismo religioso. North
ha ben visto come la trasformazione
della vita religiosa «stabilisce un sistema di religioni in concorrenza interattiva» incoraggiante così, con una grande creatività religiosa, un
potenziale di gravi conflitti religiosi. Uno degli aspetti più paradossali
della vittoria cristiana acquisita in un mondo di pluralismo religioso è forse
il fatto che la nuova fede ecumenica tollerò molto poco la differenza e il dissenso. La tarda antichità, infatti,
riflette la trasformazione dell’esclusivismo religioso in intolleranza
religiosa, passando per il pluralismo religioso. La violenza religiosa non è necessariamente
più intensa nel mondo che sta per sorgere, ma essa può invocare nuove
giustificazioni teologiche, o per lo meno un incoraggiamento latente da parte di una
religione che proclama un controllo nuovo, totale e universale della verità.
Per circoscrivere meglio lo sviluppo, nei
primi secoli cristiani, di questa nuova forma d'intolleranza religiosa,
propongo di analizzare le relazioni tra alcuni testi evangelici e la
cristallizzazione della cultura cristiana antica. Più precisamente, rileverò in
una prima parte una tensione, o
contraddizione, profonda tra due tendenze principali del Nuovo Testamento,
cercando di sottolineare le radici ebraiche di questa tensione.
La seconda parte di questo studio sarà
dedicata alle diverse interpretazioni date dello sviluppo dell'intolleranza
cristiana nella tarda antichità. All'atteggiamento di Gibbon, per il quale le
radici di quest'intolleranza sono iscritte nelle radici monoteiste del
cristianesimo, si può opporre un atteggiamento “neo-apologetico”, secondo il
quale il peccato originale del cristianesimo risalirebbe soltanto al
cesaropapismo instaurato dalla
rivoluzione costantiniana. Di fronte al carattere statico di queste due
opzioni, si presenteranno gli approcci di Ernst Troeltsch e di Max Weber, che
seppero insistere entrambi sulle trasformazioni del cristianesimo nei primi
secoli da una setta escatologica marginale in una religione nella quale l’ethos
escatologico aveva ceduto il posto ad un
processo di politicizzazione. Concludendo, si sottolineerà un'osservazione di
Freud, che mette l'accento in modo completamente originale, mi è sembrato,
sulle relazioni tra l'esigenza d'amore universale ed un atteggiamento
psicologico fondamentalmente intollerante. Questi vari approcci ci permettono,
e tale sarà la nostra conclusione, di comprendere un po' meglio le condizioni
nelle quali dei testi redatti in un'ottica utopista, a partire dal quarto secolo furono riattivati
alla luce del nuovo potere politico dei cristiani. Si proporrà dunque qui un
modello genetico per comprendere a partire da un'ambiguità fondamentale dei
testi del Nuovo Testamento lo sviluppo della violenza e dell'intolleranza
religiose nel cristianesimo della tarda antichità.
La
natura polisemica delle grandi tradizioni religiose permette di individuare
tendenze diverse, o anche opposte, nelle loro stesse fonti. Queste tendenze
formano coppie paradossali, che rivelano alcune sottili ambiguità, ma
fondamentali, che informano tutto lo sviluppo storico. Nel cristianesimo antico,
si trova tale ambiguità, dovuta alla coesistenza di tendenze «irenica » ed «eristico»,
o «quietista» e «attivista», fin dal Nuovo
Testamento. Quest'ambiguità è legata alla natura radicale del primo
cristianesimo, che sorge nel contesto chiliasta dell'apocalittica ebrea.
1. Amore
del nemico
Leggiamo per cominciare alcuni passi evangelici:
Avete
inteso che fu detto: Amerai il tuo
prossimo e odierai il tuo nemico (agapèseis
ton plèsion sou (Lev 19.18) kai
misèseis ton ekhthron sou). Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate
per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei
cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui
giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale
ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto
soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così
anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro
celeste. (Mt 5:43 - 48).
Allo
stesso modo parla Gesù nel Discorso della
montagna. Nel passo corrispondente in Luca si esprime in termini simili:
Ma
a voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici (agaparè tous ekhthrous humôn), fate del bene a quelli che vi
odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano
male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l'altra; a chi ti strappa il
mantello, non rifiutare neanche la tunica. Da' a chiunque ti chiede, e a chi
prende le cose tue, non chiederle indietro. E come volete che gli uomini
facciano a voi, così anche voi fate a loro. Se amate quelli che vi amano, quale
gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. (Lc 6:27 - 33).
L'ingiunzione
del discorso della montagna sembra a
prima vista essere agli antipodi di ogni atteggiamento violento o intollerante.
Da sempre, la tradizione cristiana ha visto in tali versetti la quintessenza
del messaggio di Gesù, il tratto più evidente della sua originalità e della sua
forza ˗ anche se non si può ignorare l'ampio contesto letterario classico ed
ebreo nel quale si iscrivono le Beatitudini. La stessa intuizione è ripresa in
modo conciso dalla prima epistola di Giovanni: «Dio è amore (to theos agapè estin)»
(1 Gv 4:16), e questa parola
risuonerà lungo tutta la storia del cristianesimo, rappresentando anche il
modello delle relazioni interumane, soprattutto nella comunità cristiana. Poco
importa qui che il tentativo di risalire fino agli ipsissima verba di Gesù rifletta uno sforzo epico e forse, alla fin
fine, illusorio. Nel nostro contesto, ciò che conta, è che per la coscienza
cristiana, fin dall'epoca patristica, questi versetti sono stati sempre fruiti
come riportanti esattamente le parole stesse del Signore e alla base dell'ideale
cristiano delle relazioni interumane fondate sull’ imitatio Christi.
Siamo certamente troppo abituati a tali
versetti, di cui tutta la cultura occidentale è impregnata, per prestare loro
tutta l'attenzione che meritano. «Amate i vostri nemici»: cosa può mai
significare tale ingiunzione, nello spingere il dovere d'amare ̶ un paradosso in sé ̶ fino
all'assurdità? Rendere l'amore per l’odio: ecco, si dirà, l'intuizione
fondamentale di Gesù, il genio stesso del cristianesimo. Per dare soltanto un
esempio tra mille, si può trovare l'espressione classica di questa corrente di
pensiero nel Gesù di Nazareth di
Günther Bornkamm, un libro che, provenendo dalla scuola esistenziale associata al
nome di Bultmann, riflette uno sforzo notevole nel cogliere la figura storica
di Gesù. Più recentemente, nel suo studio sociologico della Jesusbewegung nella Palestina del primo
secolo (un movimento che egli definisce “radicale-teocratico”), Gert Theissen
nota giustamente che l'origine della visione che consente di predicare l'amore
del nemico resta un enigma, che le molteplici e diverse analisi non riescono realmente a spiegare in
modo soddisfacente. Come comprendere con maggior precisione il contesto nel quale tale idea potrebbe
essere stata concepita?
«Avete inteso che è stato detto: Amerai il tuo prossimo ed odierai il tuo nemico…». Questo doppio comando, ovviamente, non si trova in nessun
luogo della bibbia ebraica. Il Levitico
19:18 parla soltanto dell'amore del prossimo, non dell’odio del nemico. In maniera
tradizionale tuttavia, l'ermeneutica cristiana ha opposto il dictum evangelico all'atteggiamento
implicito nel Vecchio Testamento, un atteggiamento fondamentalmente
esclusivista, nel quale non soltanto l'amore del nemico restava inconcepibile,
ma anche l’odio del nemico sarebbe stata
una conseguenza naturale, inevitabile, della limitazione implicita del comando d'amore
del prossimo del Levitico.
2. Atteggiamento «eristico».
La
linea rappresentata dai versetti citati innanzi,
e che si potrebbero chiamare la tradizione «irenica» del primissimo
cristianesimo, non è tuttavia la sola nei vangeli. Affermare ciò è forse
ripetere l'evidenza, ma l'evidenza deve a volte essere chiarita. Nello studio
del cristianesimo antico forse più ancora che in qualsiasi altro settore, le
argomentazioni teologiche e storiche sembrano inestricabili. Un esempio- tipo
di questo genere di problemi ci è offerto dal recente lavoro di Robert
Hamerton-Kelly, Sacred Violence, che
applica la teoria «totalista» di René Girard sulle relazioni tra religione e
violenza alla figura di Paolo. Il libro, infarcito di dichiarazioni
semplicistiche, coglie la non-violenza e l'insegnamento dell'amore come le sole
dimensioni del Nuovo Testamento. Benché queste pagine non trattino di Paolo, la
mia prospettiva è radicalmente opposta a quella di Girard e di Hamerton-Kelly.
Altri versetti riportano alcune parole di Gesù che vanno in un senso molto
diverso, che si potrebbe qualificare come violento, o eristico. Facciamo
qualche esempio.
Non crediate che io sia
venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada.
(ouk èlthon balein eirènèn alla machairan ). (Mt,10,34).
Il logion è speculare in Lc,
12,49 - 51:
Sono venuto a gettare
fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! … Pensate
che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma
divisione. (diamerismon).
Notiamo
che Theissen, seguendo numerosi altri esegeti, interpreta il versetto come «alludente
ad un conflitto nella famiglia». L'importanza attribuita da Gesù alla spada
appare anche nel passaggio famoso di Luca «sulle due spade» (Lc 22,35 - 38),
dove Gesù raccomanda ai suoi discepoli di procurarsi armi - un passaggio la cui
esegesi origeniana sarà di un'importanza capitale per la concezione medioevale
delle relazioni tra i due poteri, spirituale e temporale. L'esistenza
simultanea di queste due lingue nei vangeli sinottici non può certamente essere
negata. Sembra imbarazzare la maggior parte degli esegeti, che sono spesso
anche, non la dimentichiamo, teologi o almeno cristiani impegnati. La
tradizione evangelica «eristica» va così manifestamente contro la tradizione «irenica», considerata
come riflettente l’essenza stessa del kerigma
evangelico, che Rudolph Bultmam ha potuto parlare di «versetti imbarazzanti».
Si ha a volte l'impressione che anche i più grandi fra gli studiosi evitino il
confronto diretto con questi versetti. Così Adolph von Harnack interpretava il
passo delle due spade in modo metaforico: la spada avrebbe rappresentato la
difesa accanita del vangelo sotto la persecuzione. Al giorno d'oggi, lo stesso Theissen, sembra evitare la contraddizione tra le due
tradizioni. Per lui, la nuova visione proclamata da Gesù è tutta d'amore e di
riconciliazione, una visione nella quale le tensioni multiple della società
palestinese sono interiorizzate (Theissen utilizza, in modo un po' spiccio, il
termine psicanalitico di «introiezione»;
gli psicologi, infatti possono probabilmente individuare i legami complessi tra
movimento d'introversione ed aggressività rimossa). D'altra parte, i versetti «eristici»
sono stati utilizzati da tutta una schiera di studiosi, da Reimarus a S.G.F. Brandon,
passando per R. Eisler, che vogliono vedere in Gesù un discepolo della violenza
nazionalista oltranzista predicata dagli Zeloti, o quantomeno loro alleata. L'indice principale dato dai
testi, naturalmente, è il riferimento a uno «zelota», Simone, fra i discepoli
di Gesù (Lc 6,15, At 1.13), un personaggio chiamato kananaios da Marco (3,18) e Matteo
(10: 4), trascrizione dell'ebreo kanai,
origine del «zeloti» dei Settanta.
Secondo la tesi radicale di Brandon, è soprattutto nel contesto della sommossa
contro Roma che occorre comprendere il personaggio di Gesù. Le numerose
confutazioni e polemiche suscitate da questa tesi hanno insistito sul carattere
selettivo di tale lettura, che ignora troppi testi per poter convincere. «Terribili
semplificatori», così Oscar Cullmann chiama questi studiosi alla ricerca di una
tesi sulle origini cristiane, i quali scelgono di privilegiare alcune
dimensioni del movimento cristiano ai suoi inizi, al prezzo dell'ignoranza di
altre dimensioni, non meno presenti, non meno importanti.
3. Qumrân: l’odio mascherato.
Alcuni
passaggi citati bastano ad indicare due tendenze apparentemente contradittorie nei
testi evangelici sull'atteggiamento irenico o eristico di Gesù. Si possono riconciliare
questi testi, o fanno appello a due approcci irriducibili? Torniamo al
riferimento all'insegnamento dell’ odio in Matteo
5:43. Dalla scoperta dei manoscritti di Qumrân, abbiamo un parallelo molto
interessante, nel Manuale di disciplina,
o Regola della Comunità. La regola
espone nei dettagli (pagina IX) i precetti da seguire da parte del maestro, o istruttore
(hamevaqer) nelle sue relazioni con i
membri della setta:
E ciascuno secondo il suo spirito: è così che li
giudicherà…
E tale sarà il suo amore, tale sarà anche il
suo odio (ken ahavato 'im sin 'ato)
E che non rimproveri gli «uomini della fossa»
(anshei ha-shahat) né che si disputi con loro; ma che si nasconda le massime
della legge in seno agli uomini malvagi (anshei ha- 'avel).
E che si riservi la conoscenza vera ed il giusto
diritto a quelli che hanno scelto la Via. Ciascuno secondo il suo spirito,
secondo il momento determinato del tempo, li guiderà nella Conoscenza; e del
pari li informerà dei misteri meravigliosi e veritieri (be-razei pele ve-emet)
in seno ai membri della Comunità.
Odio eterno verso gli uomini della fossa in
uno spirito di segreto (sin'at 'olam 'im anshei shahat be-ruah haster)….
Ma sarà un uomo pieno di zelo per il Precetto
ed il cui tempo è per il giorno della Vendetta (ve-lihyot ish meqane la-hoq
le-yom naqam).
Questo
testo esprime un atteggiamento paradossale, che occorre sottolineare. Da un
lato predica l’odio contro tutti coloro che non sono membri della setta,
ma dall'altra decreta che quest'odio
deve restare segreto, e che le relazioni con «gli uomini della fossa», cioè con
il resto dannato dell'umanità (compresi gli altri membri della nazione ebrea)
devono evitare di rivelare i sentimenti veri provati dagli esseni nei confronti degli estranei alla
setta. La violenza di questo testo che predica un atteggiamento di passività di
fronte al nemico, ciò che si potrebbe quasi chiamare un atteggiamento quietista
(così P. Alfaric caratterizzava gli esseni), o non violento, è notevole. Si sa
che nel mondo antico, gli esseni erano conosciuti come pacifisti. Così Giuseppe
Flavio li chiama «i ministri della pace» e Filone descrive le loro occupazioni
pacifiche e le relazioni ireniche che intrattenevano con i loro vicini. Quest'atteggiamento
pacifico sotto il quale gli esseni apparivano ai loro contemporanei era
soltanto una maschera, tesa a nascondere una teologia bellicosa? La questione può
sembrare a prima vista retorica. Il testo indica infatti molto chiaramente la
dimensione esoterica della teologia essena. La verità è insegnata soltanto ai
membri della setta, figli della luce in guerra fino alla lotta finale contro i
figli dell'ombra.
Per
la coscienza essena, questa lotta oppone i membri della Comunità al resto di
un'umanità traviata nel suo cammino. È
il radicalismo settario degli esseni che li porta a sviluppare tale teologia
esoterica: non si rivelano al nemico segreti strategici. Così, nel quadro di
una Comunità groppuscolare e utopista, si trova espressa, per la prima
volta a mia conoscenza, un atteggiamento
che rivestirà la sua espressione classica nella teoria sciita della taqiyya.
Sono allo stesso tempo le condizioni sociologiche ed i presupposti teologici nei
quali quest'atteggiamento assume forma che ci interessano qui. Abbiamo a che
fare con una Comunità religiosa chiusa, ma che vive con grande intensità la preparazione attiva ad
una redenzione dalle dimensioni cosmiche. Nelle loro relazioni indispensabili con l'esterno, gli esseni si
impongono di conservare la segretezza di una teologia le cui reali
dimensioni escatologiche giustificheranno tale scelta. L’odio deve dunque restare nascosto fino alla
fine dei tempi. Nonostante l'attenzione prestata recentemente ai testi di
Qumrân, sembra che le implicazioni del carattere esoterico dell’odio nel
pensiero esseno, per la storia delle religioni in generale ed il primo
cristianesimo in particolare, non siano state sufficientemente analizzate.
Occorre ripetere qui che sotto alcuni punti di vista, il cristianesimo antico è
erede di correnti radicali o marginali del giudaismo del primo secolo più che del
giudaismo rabbinico.
La
guerra santa è parte integrante dall'escatologia essena, così come appare
sviluppata in particolare nel Rotolo
della guerra. Le radici di quest'idea sono naturalmente bibliche, senza
tuttavia, ricordiamolo, che il termine stesso appaia nei testi. In uno studio
sull'idea di «guerra santa» nella bibbia
ebraica, Michael Walzer insiste sul fatto che l'origine dell'idea è da cercare
nella realtà sociale di una Comunità religiosa,
piuttosto che nell'idea monoteista, come fanno la maggior parte dei
ricercatori, che postulano più che dimostrare che l'opposizione di un unico Dio vero alla
molteplicità degli idoli come la causa profonda dell'idea di guerra santa. Il
caso esseno, che sottolinea l'importanza drammatica attribuita alla guerra
apocalittica nella teologia settaria, tende a rafforzare la plausibilità di
tale tesi. Ma questo caso permette anche di rilevare le condizioni nuove che
trasformano la guerra santa in guerra apocalittica, e dunque in parte, anche se
non certamente metaforica, un po'astratta o irreale.
È in tale contesto, certamente, che occorre
comprendere la violenza guerriera postulata dall'Apocalisse di Giovanni. Ma è anche in questo contesto che si devono
rileggere i versetti evangelici citati più su. Gesù fa riferimento alle
dottrine essene quando cita l'insegnamento dell’odio dei nemici? È molto
probabile, come rilevato da Morton Smith molto tempo fa. In
ogni caso, i testi del Mar Morto
riflettono il contesto naturale nel quale sorge il movimento cristiano. È in
gran parte per opposizione al radicalismo politico degli Zeloti
(un termine che occorre certamente intendere, prima della grande sommossa degli
anni Sessanta, nel senso generico di banditi dal nazionalismo religioso
violento, senza che il termine si riferisca necessariamente ad un gruppo
politico-militare concreto) che il movimento fondato da Gesù si definisce ai
suoi inizi. Ma al radicalismo politico, Gesù ed i suoi discepoli oppongono
un'altra forma di radicalismo di natura escatologica e itinerante. L'espressione di questo
radicalismo escatologico riprende alcuni
temi che si trovano nella letteratura essena , in particolare quello della
violenza apocalittica. È in questo contesto che occorre comprendere le parole
evangeliche eristiche di Gesù. Come ha proposto Otto Betz, in un articolo
intitolato, precisamente, «Jesu heiliger Krieg» [La guerra santa di Gesù],
occorre probabilmente comprendere queste parole come facenti
riferimento all'idea di guerra santa, ma una guerra santa escatologica, da
condurre piuttosto contro le forze demoniache ed i poteri cosmici del male che
contro l'occupante romano. È qui, mi sembra, che occorra cercare le radici
della metafora militare la cui importanza è fondamentale e attraversa tutta la letteratura e la
coscienza cristiane, dai martiri ed asceti dei primi secoli fino ai Gesuiti ed all'Esercito della salvezza. Se Gesù ed i suoi discepoli non preparano la
sommossa contro Roma, li hanno però coscienza di vivere le sfide e la violenza
annunciate per la fine dei tempi. Il loro atteggiamento è prova, quanto quello
degli esseni, di radicalismo. Ma al posto dell’odio nascosto dei nemici
predicato da quest'ultimi, propongono un atteggiamento ancora più profondamente
nuovo, che si possa qualificare allo stesso tempo come anarchico e come utopista: restituire l'amore per l’
odio. Nel quadro delle interpretazioni della tendenza «eristica» del cristianesimo
antico, occorrerà anche insistere sulle implicazioni psicologiche di tale
atteggiamento paradossale.
II.
INTERPRETAZIONI
4. Interpretazioni
alternative dell'intolleranza cristiana
«I have described the triumph of barbarism and
religion». Così Edward Gibbon poteva riassumere lo scopo del
suo Decline and Fall of the Roman Empire.
Ma è l'insinuazione nel cuore di questa piccola frase, naturalmente, che fa
tutta la sua forza: non si tratta soltanto del barbarismo e della religione, piuttosto
degli sforzi congiunti dei barbari e dei cristiani che, insieme, distrussero il
mondo antico. Per Gibbon, se i cristiani erano usciti vincitori dalla grande
singolar tenzone che avevano intrapreso contro il paganesimo dell'impero
romano, era soprattutto grazie al loro zelo religioso, ereditato del monoteismo
ebreo, e che doveva restare completamente sconosciuto presso i pagani. Nel famoso
capitolo quindici del suo magnum opus,
Gibbon indica nello zelo religioso (intolerant
zeal) la prima delle cinque cause che hanno consentito la vittoria
cristiana. In altri termini, è dal suo fanatismo innato che proviene la forza
storica del cristianesimo. L'approccio di Gibbon è il prototipo di un
atteggiamento che si può chiamare «paganofilo», e che riflette soprattutto un
anti-cristianesimo ̶ spesso un anti-giudaismo ̶ sordo ma violento in tutta una corrente della
ricerca derivata «dalla reazione paganofila» del secolo dei Lumi. Così, per
dare soltanto un esempio dei più recenti, Kriminalgeschichte
des Christentums [Storia criminale del cristianesimo] pubblicata da
Karlheinz Deschner, un ex giornalista, epigono di Nietzsche e cattolico apostata,
che dedica da alcuni decenni il meglio delle sue forze a «écraser l'infâme» .
Di
fronte a tali rappresentazioni dei mali trasmessi dal cristianesimo all'Europa,
si trova la posizione che si può qualificare qui, un po’ bruscamente, come apologetica;
posizione sviluppata in modo tradizionale dai pensatori e storici cristiani,
soprattutto peraltro in ambito protestante presso i nemici del cesaropapismo pronti
a opporre una Comunità apostolica del mito, animata dal verbo non edulcorato
del Signore, alla decomposizione rappresentata dalla ecclesia triumphans cattolica. Questo «modello» alternativo insiste
su quel peccato capitale che per il cristianesimo è stata la rivoluzione costantiniana.
La commistione della religione con gli
affari del secolo, la sua politicizzazione, doveva necessariamente produrre risultati catastrofici, e trasformare
nella sua natura stessa il messaggio di pace predicato dal profeta di Nazareth.
Al cristianesimo degenerato è così opposto il kerigma delle origini, immune da ogni intolleranza o violenza.
Tale approccio apologetico non è ovviamente appannaggio
esclusivo degli studiosi protestanti. Jean Delumeau, per esempio, ha dedicato
numerosi sforzi per riflettere sul rapporto secondo il quale le radici del
totalitarismo moderno potrebbero essere legate al cristianesimo. Da un lato, la
sua risposta si iscrive nella linea «apologetico»:
Perché
il cristianesimo è andato al potere e si è confuso con lo Stato, è diventato
totalitario ed ha perseguitato tutti coloro che si allontanavano dalla dottrina
ufficiale
Per
altro verso, Delumeau insiste come Jacob
Talmon, sul carattere utopista dei movimenti totalitari moderni, notando che i
movimenti millenaristi ed il totalitarismo rivoluzionario sono entrambi fondati sull'utopia. In questo senso, avrebbe
potuto riflettere sulle origini cristiane e le implicazioni di concezioni
teologiche fondamentali per la nascita, anche se molto più tarda, di alcuni
atteggiamenti sociali o politici. Ma Delumeau non è uno storico del mondo antico,
e i numerosi esempi con cui dispiega le
sue tesi non risalgono in generale più indietro del medioevo. Di fronte alla
concezione politica delle radici dell'intolleranza cristiana, occorre citare lo
studio importante di Arnaldo Momigliano, che nota al contrario l'atteggiamento
ambivalente dell'universalismo cristiano di fronte al concetto di Stato.
Karl Mannheim, il fondatore della sociologia
della conoscenza, ha anche offerto una riflessione di grande interesse per la
dialettica dell'influenza profonda delle idee utopistiche sulla società. Nel
suo magnum opus, Ideologia ed utopia, fa allusione alla tensione esistente nel cristianesimo
antico tra il comandamento dell’amore e la vita in un mondo non salvato. Ma
Mannheim è troppo interessato dai fenomeni del mondo moderno per spingere più
indietro la sua analisi delle radici religiose profonde delle utopie politiche
ed ideologie contemporanee.
Ho
presentato finora, troppo brevemente, due approcci fondamentalmente opposti
delle radici dell'intolleranza cristiana. Da un lato, l'approccio «paganofilo »
di Gibbon: è in quanto fede monoteista che il cristianesimo sarebbe principalmente
intollerante. Quest'intolleranza è il rovescio dello «zelo religioso» ereditato
dai cristiani dagli ebrei, e le sue conseguenze più perniciose si esprimono
soltanto dopo la trasformazione
religiosa dell'impero. Quest'approccio evita il fatto che è precisamente dopo
la trasformazione, nell'impero romano del terzo e del quarto secolo, del
cristianesimo in un monoteismo mitigato
che la sua violenza e la sua intolleranza appaiono. Dall'altra parte c’è l’approccio
«apologetico»: il messaggio originale di
Gesù non rappresenterebbe in alcun modo un pericolo di sorta per la tolleranza
religiosa. L'intera responsabilità del deterioramento del cristianesimo è da
mettere sul conto della sua politicizzazione nel quarto secolo. Per il primo
approccio, è il cristianesimo che corrompe lo Stato: per il secondo, è lo Stato
che corrompe il cristianesimo.
La debolezza principale di questi due approcci
per lo storico delle religioni è precisamente il loro carattere statico,
a-storico. Tutto si sarebbe deciso nel primo secolo, o nulla di inquietante ci
sarebbe prima del quarto. Tra queste due
correnti di pensiero, è impossibile scegliere «un modello» storico
soddisfacente, che spieghi l'evoluzione del cristianesimo dal primo al quarto
secolo, l'impatto del primo cristianesimo sullo sviluppo, più tardi,
dell'intolleranza in ambiente ormai cristiano. I miasmi ideologici o teologici
dei due approcci, che sono del tutto evidenti, ci lasciano di fronte ad un falso
dilemma. Una vera comprensione della trasformazione complessa del cristianesimo
nei primi secoli deve superare questa falsa opposizione, ed avvicinarsi ai
fenomeni religiosi nelle loro dimensioni storiche e sociologiche. Gli approcci
di Max Weber e di Ernst Troeltsch, in particolare, sembrano utili per la
partenza di una riflessione nuova sulle radici dell'intolleranza cristiana.
5. Troeltsch e Weber: tensioni dialettiche ed Entpolitisierung
Certamente
più di qualsiasi altro pensatore prima o dopo di lui, Ernst Troeltsch ha
offerto, tra il primo quarto di questo secolo, una riflessione fondamentale
sulle relazioni tra teologia e pensiero sociale nel cristianesimo. A differenza
di Max Weber, che non dedicò al cristianesimo antico, come ad altre
civilizzazioni religiose, un lavoro di sintesi, Troeltsch fa partire la sua
riflessione delle fonti stesse del cristianesimo. Nel suo studio classico Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen [Le dottrine sociali delle chiese e dei
gruppi cristiani, Firenze 1960], insiste sulla trasformazione del cristianesimo
antico nell'impero romano. All'origine, si trattava di un movimento radicale ed
escatologico, che attendeva attivamente il ritorno del Cristo e la salvezza universale. Col tempo e la
delusione di quest'attesa si attenua l'attivismo iniziale del movimento, ed il
cristianesimo si adatta al mondo, si assimila in parte alle forme di pensiero e
di vita nell'impero romano, sviluppando un nuovo approccio, conservatore, che
permette l'integrazione della chiesa nell'impero. La grande originalità
dell'approccio troeltschiano non è tanto l'idea stessa di una trasformazione
profonda del cristianesimo nei primi secoli, quanto il riconoscimento delle
condizioni che hanno reso questa trasformazione possibile: soprattutto
l'esistenza allo stato embrionale di tendenze opposte fin dalle prime fasi
della nuova religione. Così Troeltsch può notare la coesistenza di elementi «conservatori
e rivoluzionari» nel pensiero paolino.
La vittoria di questi elementi conservatori è presentata da Troeltsch, egli
stesso teologo protestante, vicino al punto di vista dei ricercatori
identificati all'inizio del secolo come la Religionsgeschichtliche
Schule di Gottingen, in modo quanto più possibile wertfrei [avalutativo] (per
usare un termine weberiano). In termini weberiani, ancora, si può descrivere la
sua interpretazione del cristianesimo antico come una Comunità di individui che
si definisce soprattutto come innerweltlich
[intra-mondana], che agisce sulla terra ma che conserva la propria testa in
cielo. Ne segue una relativizzazione dell'ordine regnante nella società. Il
sociologo Louis Dumont, che adotta con entusiasmo l'analisi troeltschiana,
riassume nel modo seguente la vittoria sull'elemento ausserweltlich [extra-mondano o isolazionista] nel cristianesimo
antico: con essa, sono le tendenze estremiste dei ribelli ebrei, degli autori
apocalittici, degli gnostici e dei manichei che perdono la partita.
Accanto
ad alcuni vantaggi tale visione delle cose lascia senza risposta la questione
seguente: com’è stato possibile che se è stato appunto con la vittoria della
tendenza «ragionevole», «imborghesita»
del cristianesimo nell'impero romano che poi si sia sviluppata l'intolleranza
religiosa, con una violenza sconosciuta fino ad allora? Se il cristianesimo è
realmente riuscito a liberarsi delle
tendenze radicali, estremiste, delle sue origini, come spiegare la persistenza
di alcuni aspetti legati a queste tendenze ed anche la loro fioritura, se si
può utilizzare questa parola, dopo il quarto secolo?
In
altri termini, è l'assenza di dimensione dialettica, la difficoltà a trattare della trasformazione di alcuni caratteri del primo al quarto secolo, che
rende i due approcci descritti più su insufficienti per trattare il fenomeno che ci interessa. Insistono su un
solo aspetto, innato o acquisito, del cristianesimo, ed evitano allo stesso
tempo la polisemia dei testi che si potrebbe chiamare «fondazionale» e la
dimensione storica della loro trasformazione, per spiegare la progressione dell'intolleranza cristiana.
Per
Max Weber, i movimenti religiosi del mondo mediterraneo e del vicino oriente in
epoca ellenistica e romana erano sorti all’interno di gruppi di intellettuali
che egli definisce «spoliticizzati». Questi intellettuali, rifiutati dalle cerchie
politiche dominanti e fuori dalle leve del potere, svilupparono nuove forme
d'espressione religiosa vertenti sull'idea di salvezza, un'idea abbastanza
periferica nelle religioni arcaiche e classiche. Entpolitisierung: questo concetto weberiano, seppur così
importante, resta poco utilizzato per comprendere la formazione di nuovi
atteggiamenti religiosi verso la fine
del mondo antico. Soltanto di recente uno studio complesso, dovuto a Hans Kippenberg,
gli è stato dedicato. L'idea di Entpolitisierung
sembra tuttavia molto utile per descrivere l'interesse sviluppato
dall'apocalittica ebrea e paleocristiana
per la lotta escatologica tra le forze del bene e le forze del male, e si chiarisce
la violenza bellicosa del suo vocabolario se si postula che questi scritti sono
redatti e letti in Comunità abbastanza decentrate rispetto al potere politico.
Nel caso di Qumrân o delle Comunità cristiane primitive, tale ipotesi è senza
dubbio confermata dall'evidenza. Così l'esclusivismo e la violenza riflessi da
tali testi sono condizionati dall’ambiente nel quale sono concepiti: se
l'esclusivismo è chiuso in forme sociali marginali, la violenza resta
generalmente del tutto verbale. L'interesse proclamato da gruppi (o gruppetti)
settari per la salvezza o la dannazione dell'umanità intera può risultare
sorprendente soltanto se si dimentica che i testi esprimono atteggiamenti
generalmente staccati da ogni programma politico concreto. Si può così parlare della «neutralizzazione» delle concezioni
eristiche nei movimenti religiosi «spoliticizzati».
Con
la rivoluzione costantiniana, il cristianesimo, accedendo al potere abbandona
il privilegio dell’irresponsabilità che gli era proprio in quanto movimento
fuori da ogni connessione politica. I
testi «fondazionali», naturalmente, continuano ad esercitare un'influenza di
prim’ordine. Alcune idee che veicolavano, tuttavia, possono adesso essere
tradotte in modo letterale nella realtà politica. È in questa trasformazione
semplicistica di un'etica entpolitisiert
in vocabolario dell'attivismo che risiedono, sembrerebbe, i pericoli più gravi
della preferenza, in seguito del monopolio,
accordati al cristianesimo a partire da Constantin e dai suoi successori
immediati. È questo processo che favorisce la nascita di un'intolleranza attiva, ossia, troppo spesso, della
persecuzione dei pagani, degli ebrei e degli eretici. È la lettura ingenua, o «ingenuizzante»
dei testi, se mi si passa questo
neologismo, che trasforma in programma di azione radicale delle elucubrazioni
fino ad allora scevre da ogni applicazione concreta. Piuttosto che di un
ritorno alle Scritture, si dovrebbe forse parlare qui della loro lettura
anacronistica in una situazione culturale e politica nuova.
5. Freud:
amore ed intolleranza
Abbiamo
fin qui rilevato l'influenza delle
tendenze eristiche dei testi neo-testamentari. Occorre andare più lontano, ed
insistere anche sul paradosso seguente. L'ingiunzione assoluta ed
incondizionata all’amore è tutto tranne che irenica: resta per forza legata ad una
tensione profonda ed indissolubile, che trova la sua fonte nello iato tra tale
atteggiamento e la realtà sociale e psicologica, uno iato di solito chiamato «dissonanza
cognitiva». La «dissonanza cognitiva»
tra l'attesa messianica e la delusione causata dalla crocifissione di Gesù è
capitale per comprendere lo sviluppo del cristianesimo del primo al secondo
secolo, come lo ha bene mostrato John Gager, che compara nella sua analisi il
primo cristianesimo ai cargo cults
studiati dagli antropologi. Gli antropologi utilizzano anche il termine di rituals of reversal per descrivere
fenomeni particolari osservati in alcune società nei momenti di tensione
particolarmente intensi dovuti ad un'attesa chiliastica.
Il
termine è forse utile per comprendere l’ingiunzione all'amore per i nemici.
L'atteggiamento nuovo è percepito da quelli che sviluppano tale richiesta come
radicale e paradossale, opposta a tutto ciò che ci si può attendere, in altri
termini utopista. Non è escluso che si possa riuscire a rilevare alcuni legami
tra questa ingiunzione, direttamente legata al carattere esoterico dell’odio a
Qumrân, e l'aspetto esoterico del primo cristianesimo ˗ un aspetto anch’esso
praticamente ignorato dalla maggioranza dei ricercatori.
Con Theissen, abbiamo visto un inizio di
sforzo per presentare un'interpretazione psicoanalitica dell'amore. È Freud
stesso, tuttavia, che ha particolarmente ben individuato il paradosso tragico
di questa ingiunzione. In un passaggio quasi ignorato del suo Il disagio della civiltà, ma che merita
di essere citato, Freud ha compreso la relazione diretta che l'idea di amore
dell'umanità intrattiene con quella con intolleranza.
Dopo
che l'apostolo Paolo ebbe fatto dell’amore
generale dell'umanità (die allgemeine
Menschenliebe) la base della sua Comunità cristiana, la più grande
intolleranza riguardo a quelli che restarono fuori di questa Comunità (die äusserste Intuleranz gegen die draussen Verbliebenen)
fu una conseguenza inevitabile. I Romani, che non avevano stabilito la loro
Comunità politica sull'amore, non conoscevano l' intolleranza religiosa, benché
per loro la religione fosse affare di Stato, e lo Stato imbevuto di religione.
Si
deve notare soprattutto la mancanza di precisione storica in questo passaggio,
e l'estremismo della sua generalizzazione, che indeboliscono un po' la sua
forza. Si conoscono infatti i limiti della tolleranza religiosa dei Romani,
prima della loro lotta selvaggia contro il cristianesimo, dalla loro reazione
violenta allo sviluppo del culto bacchico nella Magna Grecia nel secondo secolo
a.C., o al culto druidico in Gallia nel primo secolo cristiano. Occorre anche
insistere sull'ambiguità profonda e sui limiti di ogni concezione di
tolleranza, politica o religiosa, nell'antichità. Forse si potrebbe
sull'argomento usare l'idea sviluppata da Paul Veyne a proposito della fede negli Dei presso
gli antichi Greci. Per spiegare il doppio atteggiamento di fede e di scetticismo
degli intellettuali greci, Veyne fece appello al concetto «di programma di
verità»: a vari livelli, la stessa persona può fare mostra sia di fede che di incredulità.
Analogamente, crediamo, che si possa rendere giustizia alla complessità delle
relazioni tra tolleranza ed intolleranza tra i primi secoli cristiani. Non si
trova l’Idealtypen nella realtà
storica. Ciò che distingue i vari atteggiamenti, è l'equilibrio specifico
raggiunto in ogni caso tra tolleranza e rifiuto dell'altro.
Queste osservazioni non devono tuttavia oscurare
l'originalità dell'intuizione di Freud.
Egli non dice come Gibbon, cosa che sarebbe banale e vera soltanto a metà, che è il monoteismo
dei cristiani, di fronte al politeismo romano, che è fonte di intolleranza. La
fonte dell'intolleranza cristiana, secondo lui, non è da cercare nell'idea di
un Dio unico, bensì nel totalitarismo implicito in un'ingiunzione all’amore che
non conosce altri limiti che quelli dell'umanità. In altri termini, è
l'universalismo stesso del cristianesimo che risulta qui pericoloso. In teoria la Comunità cristiana si propone di includere l'umanità intera. Sottrarsi
all’inclusione, è dare prova di un vizio perverso e rivoltante. Se il particolarismo
etnico o religioso ha la tendenza a virare rapidamente in esclusivismo che
ignora o che disprezza l'altro, l’inclusivismo ecumenico, per il quale l'altro
non ha un'esistenza legittima, implica una tensione che lo trasforma troppo
spesso in intolleranza violenta. Per Arnaldo Momigliano, le radici
dell'intolleranza religiosa nel mondo occidentale sono da cercare in buona
parte nell'universalismo cristiano. Perviene qui all'analisi di Paul Hacker su ciò che quest'ultimo ha chiamato «l’
inclusivismo» indiano, un atteggiamento da distinguere profondamente, secondo
lui, dalla vera tolleranza religiosa.
Concludendo,
si deve notare che l'esigenza di perfezione, centrale nell'insegnamento di Gesù,
(«siate perfetti come vostro Padre celeste è perfetto») implica un’istanza etica
e spirituale impossibile da raggiungere, da qui il rifiuto crudele inflitto
dalla delusione di tale istanza.
Rileviamo qui, almeno in una frase, che
l'intuizione di Freud, che evidenzia l'ambiguità innata dell'idea cristiana dell'amore
totale, contraddice una tesi fondamentale di René Girard, secondo la quale solo
il cristianesimo sfugge, con il sacrificio d'amore di Gesù alla violenza intrinseca in qualsiasi altra
forma d'espressione del sacro.
7. La scrittura e lo spirito
«La
lettera uccide, ma lo spirito vivifica». La formula concisa di Paolo (II Cor
3,6) è rapidamente diventata la chiave di volta di ogni pensiero e sensibilità
cristiani. Sembrerebbe rispondere in modo preventivo a qualsiasi pericolo di «fondamentalismo»
o di «integralismo» nel cristianesimo. Il fatto che ciò non sia il
caso rappresenta certamente una triste prova sulla natura umana. Ma occorre
anche aggiungere che la formula è stata da sempre percepita dalla coscienza
cristiana come facente soprattutto riferimento al Vecchio Testamento, mentre il
Nuovo Testamento, che riflette le parole e le azioni di Gesù, rappresenta per
questa coscienza un exemplum da
seguire nella imitatio Christi. Dalla natura stessa del testo
evangelico deriva per il cristiano un'esigenza d'imitazione, e in altri termini
un atteggiamento attivista. Se la lettura del vangelo è politicizzata, come
accade dal quarto secolo, le ambiguità, le tensioni, le contraddizioni
individuate nella figura evangelica di Gesù saranno riflesse nella vita dei
cristiani. Accanto alla imitatio Christi ascetica e mistica, si troverà lo zelo degli attivisti religiosi della
tarda antichità, quei monaci di cui Gibbon rilevava, senza utilizzare la
parola, il fanatismo.
Non
si può dunque individuare, nel cristianesimo antico, «un ritorno alle scritture»
che sarebbe alla radice del fanatismo religioso. Da un lato, le scritture non
sono mai scomparse dall'orizzonte dei cristiani, e dall'altro, l’intero
cristianesimo è fondato sulla reinterpretazione, allegorica o tipologica, dei
testi del Vecchio Testamento. La
tragedia del cristianesimo antico non deriva dalla «dissonanza cognitiva» causata dall'aggiornamento sine die della parusia, bensì piuttosto dal
fatto che i cristiani siano stati sordi alla dissonanza causata dalla lettura
di testi utopistici in un contesto politico nuovo, e del potere che era dato loro di renderli attivi. Accanto al concetto di
neutralizzazione per comprendere alcune trasformazioni nella storia delle
religioni, propongo dunque di insistere sull'idea di attualizzazione. Benché i
movimenti integralisti o fondamentalisti d'oggi riflettano la scomparsa
dell'influenza diretta delle chiese sulle società occidentali, non si possono
comprendere alcuni fenomeni attuali senza far appello alle strutture sviluppate dagli inizi nella
storia del cristianesimo. L'utopia cristiana, mi sembra, risieda nel cuore stesso
del kerigma neo-testamentario. Fustel de Coulanges poteva descrivere come,
con il cristianesimo, «lo spirito di propaganda sostituì la legge dell'esclusione».
Proprio il fatto che il cristianesimo sia, nei confronti delle religioni del
mondo antico, e in parte anche del giudaismo, una religione della convinzione,
dello spirito piuttosto che della lettera, costituisce un problema: la
convinzione implica il dovere di convincere, e troppo spesso il desiderio di vincere.
La forza del messaggio cristiano è una forza ambigua per natura che è anche
alla base di una volontà di potenza inevitabile, anche se tale forza si ritiene
spirituale.
Gedaliahu G. STROUMSA Università
ebraica di Gerusalemme
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