domenica 6 maggio 2012

IL RADICALISMO RELIGIOSO DEL PRIMO CRISTIANESIMO: CONTESTO ED IMPLICAZIONI

E, per quel che concerne i mali, il loro fine e il loro atto sono necessariamente peggiori rispetto alla loro potenza, giacché l’essere-in-potenza si identifica con entrambi i contrari.  Aristotele, Metafisica IX. 9.1051a 16-18[1].


Gedaliahu G. Stroumsa
 Sono le circostanze recenti, nuove  e  inquietanti, che spiegano il nostro vivo interesse per il radicalismo religioso. Queste circostanze comprendono anche rivoluzioni religiose e minacciano finanche il tenore della nostra vita sociale ed intellettuale. Anche lo storico dell'antichità non può rifugiarsi dietro i pesanti tendaggi  dell'antiquaria. Esclusivismo, violenza, intolleranza: questi concetti, che si rimodulano senza restare identici, sono tutti utilizzati, insieme con radicalismo, per descrivere i misfatti molteplici della religione nel mondo contemporaneo. Tramite un'analisi di alcuni aspetti paradossali del cristianesimo antico, questo studio spera anche di illuminare il processo con il quale un movimento religioso dinamico può trasformarsi in minaccia per l'esterno. Più precisamente, tenterò qui di tracciare i percorsi attraverso i quali una religione perseguitata fin dalle sue origini poté trasformarsi nei primi secoli in una religione persecutrice e di comprendere la dialettica grazie alla quale i credenti  della religione dell'amore poterono inventare forme di violenza e d'intolleranza religiose fino ad allora sconosciute nel mondo antico.

 I sociologi, che ci hanno abituati a ragionare di radicalismo religioso, sembrano utilizzare il termine in un senso abbastanza restrittivo. Secondo una definizione recente, si tratta «di un modo di pensare e  agire che implica, soprattutto, il rifiuto delle forme culturali e dei valori percepiti  come non originari (o inautentici) della tradizione religiosa». Tale definizione è forse valida nel caso di alcune correnti contemporanee nell'ambito delle religioni tradizionali, ma è inutilizzabile per l'analisi dei movimenti religiosi nuovi, che respingono spesso, alla loro nascita, la tradizione da cui emergono. Tale è il caso, effettivamente, del cristianesimo primitivo. Benché il carattere radicale o rivoluzionario del cristianesimo nascente  sia spesso riconosciuto, ho l'impressione che non sia stato ancora analizzato in modo sufficientemente preciso. Ciò è dovuto, certamente, al fatto che questo carattere è percepito soltanto in bonam partem [per sommi capi], e che si ignorano di solito le serie ambiguità e tensioni nella struttura profonda della nuova religione. Uno studio «unparteilich»[imparziale], del cristianesimo antico, di cui sognavano gli scienziati del diciannovesimo secolo, è ancora all'ordine del giorno. Così il radicalismo cristiano, che proviene dall'idea d'amore, può essere definito in opposizione diretta all'estremismo, o ancora, secondo Gerd Theissen, il cristianesimo nelle sue prime fasi rappresenta una rivoluzione nei valori (Wertrevolution), fondamentalmente diversa da una rivoluzione politica, alla ricerca del potere e per tale ragione generatrice di  violenza.
 Il presente studio vuole richiamare l'attenzione su alcune strutture teologiche del cristianesimo antico, strutture inerenti ai testi fondatori e sulle loro trasformazioni durante i primi secoli. Si tratta naturalmente di storia intellettuale piuttosto che di storia sociale, ma fondata sull'idea, di cui Michel Foucault è stato recentemente uno dei patrocinatori  più entusiasti, che il discorso pubblico di una religione o di una cultura è direttamente legato alla pratica del potere. Foucault come risaputo, sviluppò tardi un interesse profondo per il cristianesimo antico, e la sua ricerca su questo campo è rimasta incompiuta. Occorre notare qui che la correlazione tra concezioni teologiche (o legislative) e la pratica è lungi dall'essere diretta e totale. Lo storico sociale sa a che punto i comportamenti sono diversi dai principi proclamati. Così  un restringimento dei margini di tolleranza dei non cristiani (pagani ed ebrei), e più ancora, degli eretici, nella società cristianizzata della tarda antichità,  non implica necessariamente  la loro esclusione dai contatti giornalieri. E tuttavia, le tendenze son là, a  spiegare come l'equilibrio nuovo, instabile e precario, poté degenerare.
 Certamente, tale ricerca corre il rischio di anacronismo: quando parliamo di tolleranza o di intolleranza religiosa, imponiamo categorie moderne su una società per la quale sono inadeguate. La più grande prudenza è qui di rigore, ma resta il fatto che le società antiche permettono, secondo la loro evoluzione, una maggiore o minore libertà religiosa, individuale o collettiva, come pure una libertà d'espressione. A questo riguardo, non c’è alcun dubbio che l’insorgenza del cristianesimo fece la differenza sostanziale. A.D. Nock ha mostrato nel suo studio classico sull'idea di conversione che nel mondo ellenistico delle possibilità nuove d'espressione del sentimento religioso e dell'identità religiosa si erano stabilite sul piano della scelta individuale piuttosto che sulle frontiere sicure e riconosciute dell’ethnos e della tradizione, ossia l’esclusivismo polimorfo delle religioni arcaiche, ivi compresa  quella di Israele. Per Nock, il cristianesimo fondato sulla necessità della conversione,  la scelta della fede  presso  ogni individuo  senza riferimento all'identità etnica, alla classe sociale o al sesso, rappresentava l'esempio principale del nuovo atteggiamento. John North ha recentemente descritto il mondo mediterraneo, sotto l'impero romano, come un vasto supermercato delle religioni. In un certo senso, la vittoria del cristianesimo riflette quella del più forte  nel nuovo mondo del pluralismo religioso. North ha ben  visto come la trasformazione della vita religiosa «stabilisce un sistema di religioni in concorrenza  interattiva» incoraggiante  così, con una grande creatività religiosa, un potenziale di gravi conflitti religiosi. Uno degli aspetti più paradossali della vittoria cristiana acquisita in un mondo di pluralismo religioso è forse il fatto che la nuova fede ecumenica tollerò molto poco la differenza e  il dissenso. La tarda antichità, infatti, riflette la trasformazione dell’esclusivismo religioso in intolleranza religiosa, passando per il pluralismo religioso. La violenza religiosa non è necessariamente più intensa nel mondo che sta per sorgere, ma essa può invocare nuove giustificazioni teologiche, o per lo meno  un incoraggiamento latente da parte di una religione che proclama un controllo nuovo, totale  e  universale della verità.
 Per circoscrivere meglio lo sviluppo, nei primi secoli cristiani, di questa nuova forma d'intolleranza religiosa, propongo di analizzare le relazioni tra alcuni testi evangelici e la cristallizzazione della cultura cristiana antica. Più precisamente, rileverò in una prima parte  una tensione, o contraddizione, profonda tra due tendenze principali del Nuovo Testamento, cercando di sottolineare le radici ebraiche di questa tensione.
 La seconda parte di questo studio sarà dedicata alle diverse interpretazioni date dello sviluppo dell'intolleranza cristiana nella tarda antichità. All'atteggiamento di Gibbon, per il quale le radici di quest'intolleranza sono iscritte nelle radici monoteiste del cristianesimo, si può opporre un atteggiamento “neo-apologetico”, secondo il quale il peccato originale del cristianesimo risalirebbe soltanto al cesaropapismo  instaurato dalla rivoluzione costantiniana. Di fronte al carattere statico di queste due opzioni, si presenteranno gli approcci di Ernst Troeltsch e di Max Weber, che seppero insistere entrambi sulle trasformazioni del cristianesimo nei primi secoli da una setta escatologica marginale in una religione nella quale l’ethos escatologico  aveva ceduto il posto ad un processo di politicizzazione. Concludendo, si sottolineerà un'osservazione di Freud, che mette l'accento in modo completamente originale, mi è sembrato, sulle relazioni tra l'esigenza d'amore universale ed un atteggiamento psicologico fondamentalmente intollerante. Questi vari approcci ci permettono, e tale sarà la nostra conclusione, di comprendere un po' meglio le condizioni nelle quali dei testi redatti in un'ottica utopista,  a partire dal quarto secolo furono riattivati alla luce del nuovo potere politico dei cristiani. Si proporrà dunque qui un modello genetico per comprendere a partire da un'ambiguità fondamentale dei testi del Nuovo Testamento lo sviluppo della violenza e dell'intolleranza religiose nel cristianesimo della tarda antichità.

La natura polisemica delle grandi tradizioni religiose permette di individuare tendenze diverse, o anche opposte, nelle loro stesse fonti. Queste tendenze formano coppie paradossali, che rivelano alcune sottili ambiguità, ma fondamentali, che informano tutto lo sviluppo storico. Nel cristianesimo antico, si trova tale ambiguità, dovuta alla coesistenza di tendenze «irenica » ed «eristico», o «quietista» e «attivista», fin dal  Nuovo Testamento. Quest'ambiguità è legata alla natura radicale del primo cristianesimo, che sorge nel contesto chiliasta dell'apocalittica  ebrea.

1.      Amore del nemico
 Leggiamo per cominciare alcuni passi evangelici:
Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico (agapèseis ton plèsion sou (Lev 19.18) kai misèseis ton ekhthron sou). Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste. (Mt 5:43 - 48).
Allo stesso modo parla Gesù nel Discorso della montagna. Nel passo corrispondente in Luca si esprime in termini simili:
Ma a voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici (agaparè tous ekhthrous humôn), fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l'altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. Da' a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro. E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro. Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. (Lc 6:27 - 33).
L'ingiunzione del discorso della  montagna sembra a prima vista essere agli antipodi di ogni atteggiamento violento o intollerante. Da sempre, la tradizione cristiana ha visto in tali versetti la quintessenza del messaggio di Gesù, il tratto più evidente della sua originalità e della sua forza ˗ anche se non si può ignorare l'ampio contesto letterario classico ed ebreo nel quale si iscrivono le Beatitudini. La stessa intuizione è ripresa in modo conciso dalla prima epistola di Giovanni: «Dio è amore (to theos agapè estin)» (1 Gv 4:16), e questa parola risuonerà lungo tutta la storia del cristianesimo, rappresentando anche il modello delle relazioni interumane, soprattutto nella comunità cristiana. Poco importa qui che il tentativo di risalire fino agli ipsissima verba di Gesù rifletta uno sforzo epico e forse, alla fin fine, illusorio. Nel nostro contesto, ciò che conta, è che per la coscienza cristiana, fin dall'epoca patristica, questi versetti sono stati sempre fruiti come riportanti esattamente le parole stesse del Signore e alla base dell'ideale cristiano delle relazioni interumane  fondate sull’ imitatio Christi.
 Siamo certamente troppo abituati a tali versetti, di cui tutta la cultura occidentale è impregnata, per prestare loro tutta l'attenzione che meritano. «Amate i vostri nemici»: cosa può mai significare tale ingiunzione, nello spingere  il dovere d'amare  ̶   un paradosso in sé  ̶  fino all'assurdità? Rendere l'amore per l’odio: ecco, si dirà, l'intuizione fondamentale di Gesù, il genio stesso del cristianesimo. Per dare soltanto un esempio tra mille, si può trovare l'espressione classica di questa corrente di pensiero nel Gesù di Nazareth di Günther Bornkamm, un libro che, provenendo dalla scuola esistenziale associata al nome di Bultmann, riflette uno sforzo notevole nel cogliere la figura storica di Gesù. Più recentemente, nel suo studio sociologico della Jesusbewegung nella Palestina del primo secolo (un movimento che egli definisce “radicale-teocratico”), Gert Theissen nota giustamente che l'origine della visione che consente di predicare l'amore del nemico resta un enigma, che le molteplici e diverse  analisi non riescono realmente a spiegare in modo soddisfacente. Come comprendere con maggior precisione  il contesto nel quale tale idea potrebbe essere stata concepita?
 «Avete inteso che è stato detto: Amerai  il tuo prossimo ed odierai  il tuo nemico…». Questo doppio  comando, ovviamente, non si trova in nessun luogo della bibbia ebraica. Il Levitico 19:18 parla soltanto dell'amore del prossimo, non dell’odio del nemico. In maniera tradizionale tuttavia, l'ermeneutica cristiana ha opposto il dictum evangelico all'atteggiamento implicito nel Vecchio Testamento, un atteggiamento fondamentalmente esclusivista, nel quale non soltanto l'amore del nemico restava inconcepibile, ma anche  l’odio del nemico sarebbe stata una conseguenza naturale, inevitabile, della limitazione implicita del comando d'amore del prossimo del Levitico.

2. Atteggiamento «eristico».
         La linea rappresentata  dai versetti citati innanzi, e che si potrebbero chiamare la tradizione «irenica» del primissimo cristianesimo, non è tuttavia la sola nei vangeli. Affermare ciò è forse ripetere l'evidenza, ma l'evidenza deve a volte essere chiarita. Nello studio del cristianesimo antico forse più ancora che in qualsiasi altro settore, le argomentazioni teologiche e storiche sembrano inestricabili. Un esempio-   tipo di questo genere di problemi ci è offerto dal recente lavoro di Robert Hamerton-Kelly, Sacred Violence, che applica la teoria «totalista» di René Girard sulle relazioni tra religione e violenza alla figura di Paolo. Il libro, infarcito di dichiarazioni semplicistiche, coglie la non-violenza e l'insegnamento dell'amore come le sole dimensioni del Nuovo Testamento. Benché queste pagine non trattino di Paolo, la mia prospettiva è radicalmente opposta a quella di Girard e di Hamerton-Kelly. Altri versetti riportano alcune parole di Gesù che vanno in un senso molto diverso, che si potrebbe qualificare come violento, o eristico. Facciamo qualche esempio.
Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada. (ouk èlthon balein eirènèn alla machairan ). (Mt,10,34).
Il logion è speculare in Lc, 12,49 - 51:
Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! … Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione.  (diamerismon).
         Notiamo che Theissen, seguendo numerosi altri esegeti, interpreta il versetto come «alludente ad un conflitto nella famiglia». L'importanza attribuita da Gesù alla spada appare anche nel passaggio famoso di Luca «sulle due spade» (Lc 22,35 - 38), dove Gesù raccomanda ai suoi discepoli di procurarsi armi - un passaggio la cui esegesi origeniana sarà di un'importanza capitale per la concezione medioevale delle relazioni tra i due poteri, spirituale e temporale. L'esistenza simultanea di queste due lingue nei vangeli sinottici non può certamente essere negata. Sembra imbarazzare la maggior parte degli esegeti, che sono spesso anche, non la dimentichiamo, teologi o almeno cristiani impegnati. La tradizione evangelica «eristica» va così manifestamente  contro la tradizione «irenica», considerata come riflettente l’essenza stessa del kerigma evangelico, che Rudolph Bultmam ha potuto parlare di «versetti imbarazzanti». Si ha a volte l'impressione che anche i più grandi fra gli studiosi evitino il confronto diretto con questi versetti. Così Adolph von Harnack interpretava il passo delle due spade in modo metaforico: la spada avrebbe rappresentato la difesa accanita del vangelo sotto la persecuzione. Al giorno d'oggi, lo stesso Theissen,  sembra evitare la contraddizione tra le due tradizioni. Per lui, la nuova visione proclamata da Gesù è tutta d'amore e di riconciliazione, una visione nella quale le tensioni multiple della società palestinese sono interiorizzate (Theissen utilizza, in modo un po' spiccio, il termine psicanalitico  di «introiezione»; gli psicologi, infatti possono probabilmente individuare i legami complessi tra movimento d'introversione ed aggressività rimossa). D'altra parte, i versetti «eristici» sono stati utilizzati da tutta una schiera di studiosi, da Reimarus a S.G.F. Brandon, passando per R. Eisler, che vogliono vedere in Gesù un discepolo della violenza nazionalista oltranzista predicata dagli  Zeloti, o quantomeno  loro alleata. L'indice principale dato dai testi, naturalmente, è il riferimento a uno «zelota», Simone, fra i discepoli di Gesù (Lc 6,15, At 1.13), un personaggio chiamato kananaios da Marco (3,18) e Matteo (10: 4), trascrizione dell'ebreo kanai, origine del «zeloti» dei  Settanta. Secondo la tesi radicale di Brandon, è soprattutto nel contesto della sommossa contro Roma che occorre comprendere il personaggio di Gesù. Le numerose confutazioni e polemiche suscitate da questa tesi hanno insistito sul carattere selettivo di tale lettura, che ignora troppi testi per poter convincere. «Terribili semplificatori», così Oscar Cullmann chiama questi studiosi alla ricerca di una tesi sulle origini cristiane, i quali scelgono di privilegiare alcune dimensioni del movimento cristiano ai suoi inizi, al prezzo dell'ignoranza di altre dimensioni, non meno presenti, non meno importanti.

3. Qumrân: l’odio mascherato.
Alcuni passaggi citati bastano ad indicare due tendenze apparentemente contradittorie nei testi evangelici sull'atteggiamento irenico  o eristico di Gesù. Si possono riconciliare questi testi, o fanno appello a due approcci irriducibili? Torniamo al riferimento all'insegnamento dell’ odio in Matteo 5:43. Dalla scoperta dei manoscritti di Qumrân, abbiamo un parallelo molto interessante, nel Manuale di disciplina, o Regola della Comunità. La regola espone nei dettagli (pagina IX) i precetti da seguire da parte del maestro, o istruttore (hamevaqer) nelle sue relazioni con i membri della setta:
 E ciascuno secondo il suo spirito: è così che li giudicherà…
 E tale sarà il suo amore, tale sarà anche il suo odio (ken ahavato 'im sin 'ato)
 E che non rimproveri gli «uomini della fossa» (anshei ha-shahat) né che si disputi con loro; ma che si nasconda le massime della legge in seno agli uomini malvagi (anshei ha- 'avel).
 E che si riservi la conoscenza vera ed il giusto diritto a quelli che hanno scelto la Via. Ciascuno secondo il suo spirito, secondo il momento determinato del tempo, li guiderà nella Conoscenza; e del pari li informerà dei misteri meravigliosi e veritieri (be-razei pele ve-emet) in seno ai membri della Comunità.
 Odio eterno verso gli uomini della fossa in uno spirito di segreto (sin'at 'olam 'im anshei shahat be-ruah haster)….
 Ma sarà un uomo pieno di zelo per il Precetto ed il cui tempo è per il giorno della Vendetta (ve-lihyot ish meqane la-hoq le-yom naqam).

         Questo testo esprime un atteggiamento paradossale, che occorre sottolineare. Da un lato  predica l’odio contro  tutti coloro che non sono membri della setta, ma dall'altra decreta  che quest'odio deve restare segreto, e che le relazioni con «gli uomini della fossa», cioè con il resto dannato dell'umanità (compresi gli altri membri della nazione ebrea) devono evitare di rivelare i sentimenti  veri provati  dagli esseni nei confronti degli estranei alla setta. La violenza di questo testo che predica un atteggiamento di passività di fronte al nemico, ciò che si potrebbe quasi chiamare un atteggiamento quietista (così P. Alfaric caratterizzava gli esseni), o non violento, è notevole. Si sa che nel mondo antico, gli esseni erano conosciuti come pacifisti. Così Giuseppe Flavio li chiama «i ministri della pace» e Filone descrive le loro occupazioni pacifiche e le relazioni ireniche che intrattenevano con i loro vicini. Quest'atteggiamento pacifico sotto il quale gli esseni apparivano ai loro contemporanei era soltanto una maschera, tesa  a  nascondere  una teologia bellicosa? La questione può sembrare a prima vista retorica. Il testo indica infatti molto chiaramente la dimensione esoterica della teologia essena. La verità è insegnata soltanto ai membri della setta, figli della luce in guerra fino alla lotta finale contro i figli dell'ombra.
         Per la coscienza essena, questa lotta oppone i membri della Comunità al resto di un'umanità traviata nel  suo cammino. È il radicalismo settario degli esseni che li porta a sviluppare tale teologia esoterica: non si rivelano al nemico segreti strategici. Così, nel quadro di una  Comunità groppuscolare  e utopista, si trova espressa, per la prima volta a  mia conoscenza, un atteggiamento che rivestirà la sua espressione classica nella teoria sciita  della taqiyya. Sono allo stesso tempo le condizioni sociologiche ed i presupposti teologici nei quali quest'atteggiamento assume forma che ci interessano qui. Abbiamo a che fare con una Comunità religiosa chiusa, ma che vive  con grande intensità la preparazione attiva ad una redenzione dalle dimensioni cosmiche. Nelle loro relazioni  indispensabili con l'esterno, gli esseni si impongono di conservare la segretezza di una teologia le cui reali dimensioni   escatologiche  giustificheranno tale scelta.  L’odio deve dunque restare nascosto fino alla fine dei tempi. Nonostante l'attenzione prestata recentemente ai testi di Qumrân, sembra che le implicazioni del carattere esoterico dell’odio nel pensiero esseno, per la storia delle religioni in generale ed il primo cristianesimo in particolare, non siano state sufficientemente analizzate. Occorre ripetere qui che sotto alcuni punti di vista, il cristianesimo antico è erede di correnti radicali o marginali del giudaismo del primo secolo più che del giudaismo rabbinico.
         La guerra santa è parte integrante dall'escatologia essena, così come appare sviluppata in particolare nel Rotolo della guerra. Le radici di quest'idea sono naturalmente bibliche, senza tuttavia, ricordiamolo, che il termine stesso appaia nei testi. In uno studio sull'idea  di «guerra santa» nella bibbia ebraica, Michael Walzer insiste sul fatto che l'origine dell'idea è da cercare nella realtà sociale di una Comunità religiosa, piuttosto che nell'idea monoteista, come fanno la maggior parte dei ricercatori, che postulano più che dimostrare  che l'opposizione di un unico Dio vero alla molteplicità degli idoli come la causa profonda dell'idea di guerra santa. Il caso esseno, che sottolinea l'importanza drammatica attribuita alla guerra apocalittica nella teologia settaria, tende a rafforzare la plausibilità di tale tesi. Ma questo caso permette anche di rilevare le condizioni nuove che trasformano la guerra santa in guerra apocalittica, e dunque in parte, anche se non certamente metaforica, un po'astratta o irreale.
 È in tale contesto, certamente, che occorre comprendere la violenza guerriera postulata dall'Apocalisse di Giovanni. Ma è anche in questo contesto che si devono rileggere i versetti evangelici citati più su. Gesù fa riferimento alle dottrine essene quando cita l'insegnamento dell’odio dei nemici? È molto probabile, come   rilevato da Morton Smith molto tempo fa. In ogni caso, i testi del Mar  Morto riflettono il contesto naturale nel quale sorge il movimento cristiano. È in gran parte per opposizione al radicalismo politico degli   Zeloti (un termine che occorre certamente intendere, prima della grande sommossa degli anni Sessanta, nel senso generico di banditi dal nazionalismo religioso violento, senza che il termine si riferisca necessariamente ad un gruppo politico-militare concreto) che il movimento fondato da Gesù si definisce ai suoi inizi. Ma al radicalismo politico, Gesù ed i suoi discepoli oppongono un'altra forma di radicalismo di natura escatologica  e itinerante. L'espressione di questo radicalismo escatologico  riprende alcuni temi che si trovano nella letteratura essena , in particolare quello della violenza apocalittica. È in questo contesto che occorre comprendere le parole evangeliche eristiche di Gesù. Come ha proposto Otto Betz, in un articolo intitolato, precisamente, «Jesu heiliger Krieg» [La guerra santa di Gesù], occorre probabilmente comprendere queste parole come   facenti riferimento all'idea di guerra santa, ma una guerra santa escatologica, da condurre piuttosto contro le forze demoniache ed i poteri cosmici del male che contro l'occupante romano. È qui, mi sembra, che occorra cercare le radici della metafora militare la cui importanza è fondamentale  e attraversa tutta la letteratura e la coscienza cristiane, dai martiri ed asceti dei primi secoli fino ai  Gesuiti ed all'Esercito della salvezza.  Se Gesù ed i suoi discepoli non preparano la sommossa contro Roma, li hanno però coscienza di vivere le sfide e la violenza annunciate per la fine dei tempi. Il loro atteggiamento è prova, quanto quello degli esseni, di radicalismo. Ma al posto dell’odio nascosto dei nemici predicato da quest'ultimi, propongono un atteggiamento ancora più profondamente nuovo, che si possa qualificare allo stesso tempo come anarchico  e come utopista: restituire l'amore per l’ odio. Nel quadro delle interpretazioni della tendenza «eristica» del cristianesimo antico, occorrerà anche insistere sulle implicazioni psicologiche di tale atteggiamento paradossale.

II. INTERPRETAZIONI

 4. Interpretazioni alternative dell'intolleranza cristiana
«I have described the triumph of barbarism and religion». Così Edward Gibbon poteva riassumere lo scopo del suo Decline and Fall of the Roman Empire. Ma è l'insinuazione nel cuore di questa piccola frase, naturalmente, che fa tutta la sua forza: non si tratta soltanto del barbarismo e della religione, piuttosto degli sforzi congiunti dei barbari e dei cristiani che, insieme, distrussero il mondo antico. Per Gibbon, se i cristiani erano usciti vincitori dalla grande singolar tenzone che avevano intrapreso contro il paganesimo dell'impero romano, era soprattutto grazie al loro zelo religioso, ereditato del monoteismo ebreo, e che doveva restare completamente sconosciuto presso i pagani. Nel famoso capitolo quindici del suo magnum opus, Gibbon indica nello zelo religioso (intolerant zeal) la prima delle cinque cause che hanno consentito la vittoria cristiana. In altri termini, è dal suo fanatismo innato che proviene la forza storica del cristianesimo. L'approccio di Gibbon è il prototipo di un atteggiamento che si può chiamare «paganofilo», e che riflette soprattutto un anti-cristianesimo  ̶  spesso un anti-giudaismo ̶  sordo ma violento in tutta una corrente della ricerca derivata «dalla reazione paganofila» del secolo dei Lumi. Così, per dare soltanto un esempio dei più recenti, Kriminalgeschichte des Christentums [Storia criminale del cristianesimo] pubblicata da Karlheinz Deschner, un ex giornalista, epigono di Nietzsche e cattolico apostata, che dedica da alcuni decenni il meglio delle sue forze  a «écraser l'infâme» .
Di fronte a tali rappresentazioni dei mali trasmessi dal cristianesimo all'Europa, si trova la posizione che si può qualificare qui, un po’ bruscamente, come apologetica; posizione sviluppata in modo tradizionale dai pensatori e storici cristiani, soprattutto peraltro in ambito protestante presso i nemici del cesaropapismo pronti a opporre una Comunità apostolica del mito, animata dal verbo non edulcorato del Signore, alla decomposizione rappresentata dalla ecclesia triumphans cattolica. Questo «modello» alternativo insiste su quel peccato capitale che per il cristianesimo è stata la rivoluzione costantiniana. La commistione  della religione con gli affari del secolo, la sua politicizzazione, doveva necessariamente  produrre risultati catastrofici, e trasformare nella sua natura stessa il messaggio di pace predicato dal profeta di Nazareth. Al cristianesimo degenerato è così opposto il kerigma delle origini, immune da ogni intolleranza o violenza.
 Tale approccio apologetico non è ovviamente appannaggio esclusivo degli studiosi protestanti. Jean Delumeau, per esempio, ha dedicato numerosi sforzi per riflettere sul rapporto secondo il quale le radici del totalitarismo moderno potrebbero essere legate al cristianesimo. Da un lato, la sua risposta si iscrive nella linea «apologetico»:
Perché il cristianesimo è andato al potere e si è confuso con lo Stato, è diventato totalitario ed ha perseguitato tutti coloro che si allontanavano dalla dottrina ufficiale
Per altro verso,  Delumeau insiste come Jacob Talmon, sul carattere utopista dei movimenti totalitari moderni, notando che i movimenti millenaristi ed il totalitarismo rivoluzionario sono entrambi  fondati sull'utopia. In questo senso, avrebbe potuto riflettere sulle origini cristiane e le implicazioni di concezioni teologiche fondamentali per la nascita, anche se molto più tarda, di alcuni atteggiamenti sociali o politici. Ma Delumeau non è uno storico del mondo antico, e  i numerosi esempi con cui dispiega le sue tesi non risalgono in generale più indietro del medioevo. Di fronte alla concezione politica delle radici dell'intolleranza cristiana, occorre citare lo studio importante di Arnaldo Momigliano, che nota al contrario l'atteggiamento ambivalente dell'universalismo cristiano di fronte al concetto di Stato.
 Karl Mannheim, il fondatore della sociologia della conoscenza, ha anche offerto una riflessione di grande interesse per la dialettica dell'influenza profonda delle idee utopistiche sulla società. Nel suo magnum opus, Ideologia ed utopia, fa allusione alla tensione esistente nel cristianesimo antico tra il comandamento dell’amore e la vita in un mondo non salvato. Ma Mannheim è troppo interessato dai fenomeni del mondo moderno per spingere più indietro la sua analisi delle radici religiose profonde delle utopie politiche ed ideologie contemporanee.
Ho presentato finora, troppo brevemente, due approcci fondamentalmente opposti delle radici dell'intolleranza cristiana. Da un lato, l'approccio «paganofilo » di Gibbon: è in quanto fede monoteista  che il cristianesimo sarebbe principalmente intollerante. Quest'intolleranza è il rovescio dello «zelo religioso» ereditato dai cristiani dagli ebrei, e le sue conseguenze più perniciose si esprimono soltanto  dopo la trasformazione religiosa dell'impero. Quest'approccio evita il fatto che è precisamente dopo la trasformazione, nell'impero romano del terzo e del quarto secolo, del cristianesimo in un monoteismo mitigato che la sua violenza e la sua intolleranza appaiono. Dall'altra parte c’è l’approccio  «apologetico»: il messaggio originale di Gesù non rappresenterebbe in alcun modo un pericolo di sorta per la tolleranza religiosa. L'intera responsabilità del deterioramento del cristianesimo è da mettere sul conto della sua politicizzazione nel quarto secolo. Per il primo approccio, è il cristianesimo che corrompe lo Stato: per il secondo, è lo Stato che corrompe il cristianesimo.
 La debolezza principale di questi due approcci per lo storico delle religioni è precisamente il loro carattere statico, a-storico. Tutto si sarebbe deciso nel primo secolo, o nulla di inquietante ci sarebbe  prima del quarto. Tra queste due correnti di pensiero, è impossibile scegliere «un modello» storico soddisfacente, che spieghi l'evoluzione del cristianesimo dal primo al quarto secolo, l'impatto del primo cristianesimo sullo sviluppo, più tardi, dell'intolleranza in ambiente ormai cristiano. I miasmi ideologici o teologici dei due approcci, che sono del tutto evidenti, ci lasciano di fronte ad un falso dilemma. Una vera comprensione della trasformazione complessa del cristianesimo nei primi secoli deve superare questa falsa opposizione, ed avvicinarsi ai fenomeni religiosi nelle loro dimensioni storiche e sociologiche. Gli approcci di Max Weber e di Ernst Troeltsch, in particolare, sembrano utili per la partenza di una riflessione nuova sulle radici dell'intolleranza cristiana.

5. Troeltsch e Weber: tensioni dialettiche ed Entpolitisierung
Certamente più di qualsiasi altro pensatore prima o dopo di lui, Ernst Troeltsch ha offerto, tra il primo quarto di questo secolo, una riflessione fondamentale sulle relazioni tra teologia e pensiero sociale nel cristianesimo. A differenza di Max Weber, che non dedicò al cristianesimo antico, come ad altre civilizzazioni religiose, un lavoro di sintesi, Troeltsch fa partire la sua riflessione delle fonti stesse del cristianesimo.  Nel suo studio classico Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen [Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani, Firenze 1960], insiste sulla trasformazione del cristianesimo antico nell'impero romano. All'origine, si trattava di un movimento radicale ed escatologico, che attendeva attivamente il ritorno del Cristo  e la salvezza universale. Col tempo e la delusione di quest'attesa si attenua l'attivismo iniziale del movimento, ed il cristianesimo si adatta al mondo, si assimila in parte alle forme di pensiero e di vita nell'impero romano, sviluppando un nuovo approccio, conservatore, che permette l'integrazione della chiesa nell'impero. La grande originalità dell'approccio troeltschiano non è tanto l'idea stessa di una trasformazione profonda del cristianesimo nei primi secoli, quanto il riconoscimento delle condizioni che hanno reso questa trasformazione possibile: soprattutto l'esistenza allo stato embrionale di tendenze opposte fin dalle prime fasi della nuova religione. Così Troeltsch può notare la coesistenza di elementi «conservatori e rivoluzionari» nel pensiero  paolino. La vittoria di questi elementi conservatori è presentata da Troeltsch, egli stesso teologo protestante, vicino al punto di vista dei ricercatori identificati all'inizio del secolo come la  Religionsgeschichtliche Schule di Gottingen, in modo quanto più possibile wertfrei [avalutativo] (per usare un termine weberiano). In termini weberiani, ancora, si può descrivere la sua interpretazione del cristianesimo antico come una Comunità di individui che si definisce soprattutto come innerweltlich [intra-mondana], che agisce sulla terra ma che conserva la propria testa in cielo. Ne segue  una relativizzazione  dell'ordine regnante nella società. Il sociologo Louis Dumont, che adotta con entusiasmo l'analisi troeltschiana, riassume nel modo seguente la vittoria sull'elemento ausserweltlich [extra-mondano o isolazionista] nel cristianesimo antico: con essa, sono le tendenze estremiste dei ribelli ebrei, degli autori apocalittici, degli gnostici e dei manichei che perdono la partita.
Accanto ad alcuni vantaggi tale visione delle cose lascia senza risposta la questione seguente: com’è stato possibile che se è stato appunto con la vittoria della tendenza «ragionevole»,  «imborghesita» del cristianesimo nell'impero romano che poi si sia sviluppata l'intolleranza religiosa, con una violenza sconosciuta fino ad allora? Se il cristianesimo è realmente riuscito a  liberarsi delle tendenze radicali, estremiste, delle sue origini, come spiegare la persistenza di alcuni aspetti legati a queste tendenze ed anche la loro fioritura, se si può utilizzare questa parola, dopo il quarto secolo?
         In altri termini, è l'assenza di dimensione dialettica, la difficoltà  a trattare della trasformazione di alcuni caratteri del primo al quarto secolo, che rende i due approcci descritti più su  insufficienti per trattare il  fenomeno che ci interessa. Insistono su un solo aspetto, innato o acquisito, del cristianesimo, ed evitano allo stesso tempo la polisemia dei testi che si potrebbe chiamare «fondazionale» e la dimensione storica della loro trasformazione, per spiegare la progressione  dell'intolleranza cristiana.
Per Max Weber, i movimenti religiosi del mondo mediterraneo e del vicino oriente in epoca ellenistica e romana erano sorti all’interno di gruppi di intellettuali che egli definisce «spoliticizzati». Questi intellettuali, rifiutati dalle cerchie politiche dominanti e fuori dalle leve del potere, svilupparono nuove forme d'espressione religiosa vertenti  sull'idea di salvezza, un'idea abbastanza periferica nelle religioni arcaiche e classiche. Entpolitisierung: questo concetto weberiano, seppur così importante, resta poco utilizzato per comprendere la formazione di nuovi atteggiamenti religiosi  verso la fine del mondo antico. Soltanto di recente uno studio complesso, dovuto a Hans Kippenberg, gli è stato dedicato. L'idea di Entpolitisierung sembra tuttavia molto utile per descrivere l'interesse sviluppato dall'apocalittica  ebrea e paleocristiana per la lotta escatologica tra le forze del bene e le forze del male, e si chiarisce la violenza bellicosa del suo vocabolario se si postula che questi scritti sono redatti e letti in Comunità abbastanza decentrate rispetto al potere politico. Nel caso di Qumrân o delle Comunità cristiane primitive, tale ipotesi è senza dubbio confermata dall'evidenza. Così l'esclusivismo e la violenza riflessi da tali testi sono condizionati dall’ambiente nel quale sono concepiti: se l'esclusivismo è chiuso in forme sociali marginali, la violenza resta generalmente del tutto verbale. L'interesse proclamato da gruppi (o gruppetti) settari per la salvezza o la dannazione dell'umanità intera può risultare sorprendente soltanto se si dimentica che i testi esprimono atteggiamenti generalmente staccati da ogni programma politico concreto. Si può così parlare  della «neutralizzazione» delle concezioni eristiche nei movimenti religiosi «spoliticizzati».
Con la rivoluzione costantiniana, il cristianesimo, accedendo al potere abbandona il privilegio dell’irresponsabilità che gli era proprio in quanto movimento fuori da ogni connessione  politica. I testi «fondazionali», naturalmente, continuano ad esercitare un'influenza di prim’ordine. Alcune idee che veicolavano, tuttavia, possono adesso essere tradotte in modo letterale nella realtà politica. È in questa trasformazione semplicistica di un'etica entpolitisiert in vocabolario dell'attivismo che risiedono, sembrerebbe, i pericoli più gravi della preferenza, in seguito del monopolio,  accordati al cristianesimo a partire da Constantin e dai suoi successori immediati. È questo processo che favorisce la nascita di  un'intolleranza attiva, ossia, troppo spesso, della persecuzione dei pagani, degli ebrei e degli eretici. È la lettura ingenua, o «ingenuizzante»  dei testi, se mi si passa questo neologismo, che trasforma in programma di azione radicale delle elucubrazioni fino ad allora scevre da ogni applicazione concreta. Piuttosto che di un ritorno alle Scritture, si dovrebbe forse parlare qui della loro lettura anacronistica in una situazione culturale e politica nuova.
 5. Freud: amore ed intolleranza
Abbiamo fin qui  rilevato l'influenza delle tendenze eristiche dei testi neo-testamentari. Occorre andare più lontano, ed insistere anche sul paradosso seguente. L'ingiunzione assoluta ed incondizionata all’amore è tutto tranne che  irenica: resta per forza legata ad una tensione profonda ed indissolubile, che trova la sua fonte nello iato tra tale atteggiamento e la realtà sociale e psicologica, uno iato di solito chiamato «dissonanza cognitiva».  La «dissonanza cognitiva» tra l'attesa messianica e la delusione causata dalla crocifissione di Gesù è capitale per comprendere lo sviluppo del cristianesimo del primo al secondo secolo, come lo ha bene mostrato John Gager, che compara nella sua analisi il primo cristianesimo ai cargo cults studiati dagli antropologi. Gli antropologi utilizzano anche il termine di rituals of reversal per descrivere fenomeni particolari osservati in alcune società nei momenti di tensione particolarmente intensi dovuti ad un'attesa chiliastica.
Il termine è forse utile per comprendere l’ingiunzione all'amore per i nemici. L'atteggiamento nuovo è percepito da quelli che sviluppano tale richiesta come radicale e paradossale, opposta a tutto ciò che ci si può attendere, in altri termini utopista. Non è escluso che si possa riuscire a rilevare alcuni legami tra questa ingiunzione, direttamente legata al carattere esoterico dell’odio a Qumrân, e l'aspetto esoterico del primo cristianesimo ˗ un aspetto anch’esso praticamente ignorato dalla maggioranza dei ricercatori.
 Con Theissen, abbiamo visto un inizio di sforzo per presentare un'interpretazione psicoanalitica dell'amore. È Freud stesso, tuttavia, che ha particolarmente ben individuato il paradosso tragico di questa ingiunzione. In un passaggio quasi ignorato del suo Il disagio della civiltà, ma che merita di essere citato, Freud ha compreso la relazione diretta che l'idea di amore dell'umanità intrattiene con quella con intolleranza.
Dopo che l'apostolo Paolo  ebbe fatto dell’amore generale dell'umanità (die allgemeine Menschenliebe) la base della sua Comunità cristiana, la più grande intolleranza riguardo a quelli che restarono fuori di questa Comunità (die äusserste Intuleranz gegen die draussen Verbliebenen) fu una conseguenza inevitabile. I Romani, che non avevano stabilito la loro Comunità politica sull'amore, non conoscevano l' intolleranza religiosa, benché per loro la religione fosse affare di Stato, e lo Stato imbevuto di religione.
Si deve notare soprattutto la mancanza di precisione storica in questo passaggio, e l'estremismo della sua generalizzazione, che indeboliscono un po' la sua forza. Si conoscono infatti i limiti della tolleranza religiosa dei Romani, prima della loro lotta selvaggia contro il cristianesimo, dalla loro reazione violenta allo sviluppo del culto bacchico nella Magna Grecia nel secondo secolo a.C., o al culto druidico in Gallia nel primo secolo cristiano. Occorre anche insistere sull'ambiguità profonda e sui limiti di ogni concezione di tolleranza, politica o religiosa, nell'antichità. Forse si potrebbe sull'argomento usare l'idea sviluppata da Paul  Veyne a proposito della fede negli Dei presso gli antichi Greci. Per spiegare il doppio atteggiamento di fede e di scetticismo degli intellettuali greci, Veyne fece appello al concetto «di programma di verità»: a vari livelli, la stessa persona può fare mostra sia di fede che di incredulità. Analogamente, crediamo, che si possa rendere giustizia alla complessità delle relazioni tra tolleranza ed intolleranza tra i primi secoli cristiani. Non si trova l’Idealtypen nella realtà storica. Ciò che distingue i vari atteggiamenti, è l'equilibrio specifico raggiunto in ogni caso tra tolleranza e rifiuto dell'altro.
 Queste osservazioni non devono tuttavia oscurare  l'originalità dell'intuizione di Freud. Egli non dice come Gibbon, cosa che sarebbe banale  e vera soltanto a metà, che è il monoteismo dei cristiani, di fronte al politeismo romano, che è fonte di intolleranza. La fonte dell'intolleranza cristiana, secondo lui, non è da cercare nell'idea di un Dio unico, bensì nel totalitarismo implicito in un'ingiunzione all’amore che non conosce altri limiti che quelli dell'umanità. In altri termini, è l'universalismo stesso del cristianesimo che risulta qui pericoloso. In teoria  la Comunità cristiana si propone di  includere l'umanità intera. Sottrarsi all’inclusione, è dare prova di un vizio perverso e rivoltante. Se il particolarismo etnico o religioso ha la tendenza a virare rapidamente in esclusivismo che ignora o che disprezza l'altro, l’inclusivismo ecumenico, per il quale l'altro non ha un'esistenza legittima, implica una tensione che lo trasforma troppo spesso in intolleranza violenta. Per Arnaldo Momigliano, le radici dell'intolleranza religiosa nel mondo occidentale sono da cercare in buona parte nell'universalismo cristiano. Perviene qui all'analisi di Paul  Hacker su ciò che quest'ultimo ha chiamato «l’ inclusivismo» indiano, un atteggiamento da distinguere profondamente, secondo lui, dalla vera tolleranza religiosa.
         Concludendo, si deve notare che l'esigenza di perfezione, centrale nell'insegnamento di Gesù, («siate perfetti come vostro Padre celeste è perfetto») implica un’istanza etica e spirituale impossibile da raggiungere, da qui il rifiuto crudele inflitto dalla delusione di tale istanza.
 Rileviamo qui, almeno in una frase, che l'intuizione di Freud, che evidenzia l'ambiguità innata dell'idea cristiana dell'amore totale, contraddice una tesi fondamentale di René Girard, secondo la quale solo il cristianesimo sfugge, con il sacrificio d'amore di Gesù  alla violenza intrinseca in qualsiasi altra forma d'espressione del sacro.

7. La scrittura e lo spirito
         «La lettera uccide, ma lo spirito vivifica». La formula concisa di Paolo  (II Cor 3,6) è rapidamente diventata la chiave di volta di ogni pensiero e sensibilità cristiani. Sembrerebbe rispondere in modo preventivo a qualsiasi pericolo di «fondamentalismo» o  di «integralismo»  nel cristianesimo. Il fatto che ciò non sia il caso rappresenta certamente una triste prova sulla natura umana. Ma occorre anche aggiungere che la formula è stata da sempre percepita dalla coscienza cristiana come facente soprattutto riferimento al Vecchio Testamento, mentre il Nuovo Testamento, che riflette le parole e le azioni di Gesù, rappresenta per questa coscienza un exemplum da seguire nella imitatio Christi. Dalla natura stessa del testo evangelico deriva per il cristiano un'esigenza d'imitazione, e in altri termini un atteggiamento attivista. Se la lettura del vangelo è politicizzata, come accade dal quarto secolo, le ambiguità, le tensioni, le contraddizioni individuate nella figura evangelica di Gesù saranno riflesse nella vita dei cristiani. Accanto alla imitatio Christi ascetica e mistica, si troverà  lo  zelo degli attivisti religiosi della tarda antichità, quei monaci di cui Gibbon rilevava, senza utilizzare la parola, il fanatismo.
Non si può dunque individuare, nel cristianesimo antico, «un ritorno alle scritture» che sarebbe alla radice del fanatismo religioso. Da un lato, le scritture non sono mai scomparse dall'orizzonte dei cristiani, e dall'altro, l’intero cristianesimo è fondato sulla reinterpretazione, allegorica o tipologica, dei testi del  Vecchio Testamento. La tragedia del cristianesimo antico non deriva dalla «dissonanza cognitiva»  causata dall'aggiornamento sine die della parusia, bensì piuttosto dal fatto che i cristiani siano stati sordi alla dissonanza causata dalla lettura di testi utopistici in un contesto politico nuovo, e del potere che era dato loro di renderli attivi. Accanto al concetto di neutralizzazione per comprendere alcune trasformazioni nella storia delle religioni, propongo dunque di insistere sull'idea di attualizzazione. Benché i movimenti integralisti o fondamentalisti d'oggi riflettano la scomparsa dell'influenza diretta delle chiese sulle società occidentali, non si possono comprendere alcuni fenomeni attuali senza far appello  alle strutture sviluppate dagli inizi nella storia del cristianesimo. L'utopia cristiana, mi sembra, risieda nel cuore stesso del kerigma neo-testamentario.  Fustel de Coulanges poteva descrivere come, con il cristianesimo, «lo spirito di propaganda sostituì la legge dell'esclusione». Proprio il fatto che il cristianesimo sia, nei confronti delle religioni del mondo antico, e in parte anche del giudaismo, una religione della convinzione, dello spirito piuttosto che della lettera, costituisce un problema: la convinzione implica il dovere di convincere, e troppo spesso il desiderio di vincere. La forza del messaggio cristiano è una forza ambigua per natura che è anche alla base di una volontà di potenza inevitabile, anche se tale forza si ritiene spirituale.
Gedaliahu G. STROUMSA Università ebraica di Gerusalemme





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