giovedì 11 aprile 2013



Romano Luperini, L’uso della vita. 1968, Transeuropa , Massa 2013

Come leggere un romanzo come questo che reca nel titolo un’allusione a una probabile storia privata e una data storica controversa? A mio avviso si fa un errore se lo si legge a partire dalle proprie convinzioni su quella data-evento  che tanto ancora trascina consensi estatici e rifiuti viscerali. Eppure il romanzo è tutto ambientato nella Pisa della contestazione studentesca di quell’anno:  è chiaramente un romanzo sul ’68. L’ennesimo non si potrebbe dire, perché proprio sul versante narrativo quell’anno è stato piuttosto trascurato, mentre su quello saggistico a ogni decennio che finisce con l’otto si contano decine di volumi di approfondimento e di analisi storiche.
A Luperini non credo interessi narrare il ’68, ma la sua vicenda  personale, privata, trasfigurata nel personaggio schermo di Marcello,  nel ’68. Non interessa cioè spiegare, ma rappresentare. È il resoconto dell’impatto di un Io col mondo e delle risonanze di un’epoca in un Io. È una coscienza, la sua, che agisce dentro un evento storico, un po’ come il Frédéric Moreau dell’Educazione sentimentale nel ’48 parigino: si tratta di una storia tipica di formazione di una individualità dentro il flusso degli eventi, di una educazione sentimentale dentro uno scenario storico: la storia con la minuscola di questo individuo precipuo – Marcello nella finzione – nella Storia con la maiuscola.

martedì 2 aprile 2013

Riforme e rivoluzioni


Molte rivoluzioni ci hanno persuaso una volta per tutte che, nonostante lo sconquasso operato, nulla cambia con esse nei reali rapporti di forza nella società e nell’economia, che insomma è come spostare un peso da una spalla all' altra. Inoltre, visto che viviamo in un Paese di Gattopardi, spesso la rivoluzione fa davvero in modo che tutto cambi perché tutto resti cos’ com’è. Ecco perché essa è invocata non solo dai perfetti esteti - da tutti coloro che si eccitano davanti alle sollevazioni popolari e alle ghigliottine-, ma anche da quelli che stanno in disparte e attendono gli esiti degli eventi rivoluzionari per tirare i risultati dalla propria parte.
A differenza della rivoluzione, la politica riformista interpella la ragione piuttosto che il cuore. Essa « è difficile- scriveva Michele Salvati anni fa sul “Corriere” - impegna in ragionamenti che tirano in ballo compatibilità e incompatibilità, effetti non voluti o perversi. Esige conoscenze e specializzazione. Richiede di pensare in termini di sistema, economico, internazionale o altro: questo non si può fare perché altrimenti..; quest' altro, poco, si può fare, ma occorre cautela. Anche il riformismo più coraggioso potrà sempre essere accusato di moderatismo o di sconfinamento nel campo avversario. E questo fa sì che “vendere” un riformismo serio, sia agli elettori, sia agli intellettuali, non sia per nulla facile».
È insomma una politica difficile quella riformista e spesso può sembrare un esercizio mentale freddo, pensato dall’ alto e calato verso i destinatari che necessariamente dovranno alcuni perderci e altri guadagnarci (è la politica bellezza). Non la faccio lunga, ma chi la vuole davvero lunga potrà leggere, se mai gli capiterà a tiro, quell’enorme e informatissima opera che è “Settecento riformatore” del grande Franco Venturi. Ricordo en passant che il Settecento è stata l’epoca di riformismo più intensa che l’Europa abbia mai avuto, e che il fallimento di quelle Riforme (ma non tutte, si pensi al Catasto di Maria Teresa proprio in Lombardia) portò tragicamente alle rivoluzioni.
Le Riforme sono “tentativi ed errori”, ossia sono esperimenti "in corpore vili" nella società al fine di sanare alcune storture o favorire alcuni processi che possano recare il massimo dei benefici a un maggior numero di persone. Ma come tutti gli esperimenti perfettibili devono in qualche modo, se sono buone riforme e se sono pensate da vere teste pensanti, saper cogliere e sanare un aspetto della società in cui intervengono con il minor numero di errori, i quali come è fatale possono essere peggiori dei mali che intendono curare.

Le citazioni

Dopo 2500 anni che ci separano dal nostro maestro amatissimo  Socrate, e di discendente civiltà umanistica, è raro filare  un pensiero che non sia stato già toccato da altri. Spesso dietro molti pensieri “originali” non ci sono perciò che delle fonti  occultate, dei microfurti intellettuali. Io preferisco perciò citare chi ha pensato prima e meglio di me. Lo ritengo  un atto di onestà intellettuale  ma anche di umiltà, è l’unicuique suum tribuere. Ma ciò si scontra con un comune sentire nel nostro Paese acrimonioso e stizzoso,  ché appena ti azzardi a citare qualcuno che non sia nel sussidiario di Quinta, senti il mugugno e il rimprovero:  “Come sfoggia!”. Spesso ironicamente rispondo che sfoggiare mi sembra un po’ poco per uno come me;  io infatti sbaro, sbrindiso e talvolta … staranto,  e baroccheggio come un leccese, altroché… E poi ricordo la réplique di Arbasino che, da rutilante citazionista e mio Venerato Maestro, commentava a un dipresso: “ Chi cita tutti i  22 giocatori della partita di calcio è spesso incoraggiato e ammirato, ma che bravo, ma che cultura!, continui così, la prego! Non appena lo si fa per i TUTTI I i giocatori della partita del sapere scattano subito le censure e le mozioni d’ordine, eh no, qui si sfoggia”… 
Infine vorrei che tutti leggessero quel libro immenso che sono i “Saggi” di Michel de Montaigne: un libro intarsiato di citazioni…

lunedì 1 aprile 2013

Anche nel Blog di Beppe Grillo la vita di Papa Francesco


Raccontare la vera vita di un uomo è impossibile. Ci sfuggirebbe sempre qualcosa. E questo vale sia per la persona accanto,  la  nostra amica Marta che conosciamo o crediamo di conoscere da una vita,  sia per  Julien Sorel, il  personaggio letterario,   quell’ “essere vivo senza viscere” come lo chiamava  Paul Valéry.  L’unico modo possibile della narrazione  della vita di un uomo è quello che Leibniz nel “Discorso di metafisica” definiva  “concetto completo”: ossia la serie esatta e completa di tutti i suoi gesti, atti, discorsi, pensieri cònditi e reconditi.  Bisognerebbe interpellare ossia il dottor Sigmund di Vienna  oltre che Dio in persona. E solo Dio o in mente Dei può risiedere infatti  il “concetto completo” di un uomo.
E io che voglio fare il romanziere e ho studiato alla scuola Holden come dovrò fare allora per dar vita a un personaggio? Procedo  esattamente  come ha fatto Stendhal.  In narrativa si chiama " selezione epica", ossia se io racconto un fatto e non un altro di un protagonista (visto che non posso raccontare tutta la sua vita) opero una scelta consapevole e mai innocente, voglio che il mio protagonista venga visto in un modo piuttosto che in un altro, offro  cioè una prospettiva (anche se  composita, prismatica,  non necessariamente univoca) allo sguardo di chi legge. È come quell’ ologramma che si trovava nei formaggini MIO della nostra infanzia: reclinando  la figurina  in un modo vedo un personaggio in una posa, reclinandolo in un altro modo in un’altra posa.

Il linguaggio delle cose




Al grido "Qui non si butta via niente",  gli armadi e i cassetti scoppiano. L'ideologia (arcaica ma anche up to date perché si connette con la necessità del consumo sostenibile) è: "Conserva la pezza per quando viene il buco", "Oppure: conserva che trovi". Ed è una ideologia vincente su di te che butteresti via tutto quando ti si presentano trionfanti con un astuccio degli occhiali, vetusto ma in buono stato, pescato chissà da quale fondo di cassetto, a te che hai appena sussurrato: "Mi si è rotto l'astuccio degli occhiali". In siciliano "conservare" si dice "savvari", proprio "salvare", e   "savvari" perciò racchiude il principio di salvare gli oggetti da un ineluttabile naufragio, quel Nulla dove le cose ad un certo punto della nostra vita di consumatori più o meno responsabili spariscono.

I moralisti

In un aforisma di “Umano troppo umano» vol.II. "Opinioni e sentenze diverse" § 33  Nietzsche dice che in Schopenhauer, sotto il manto di leopardo della sua metafisica,  c’è un vero “genio moralista”. Cosa vuol dire Nietzsche? Che Schopenhauer è un bacchettone, uno che fa la morale? No, semplicemente vuol dire che  Schopenhauer è un “moraliste” alla francese, come” moralistes” erano gli autori di riferimento francesi di questo Nietzsche  che abbiamo tra le mani, ossia La Rochefoucauld, La Bruyère, Chamfort, Vauvenargues. I “Moralistes” francesi sono  quegli autori del Grand Siècle che  più e meglio hanno scritto sul cuore umano prima dell’avvento della psicoanalisi. Il loro era uno studio, rimasto con grande risalto nella tradizione francese,  sulle passioni e sui costumi  degli uomini (étude sur le passions et les mœurs, dove questi  mœurs mostrano la chiara origine latina: mos-moris). Non solo i costumi in senso lato, ma le maniere, le inclinazioni e i comportamenti  individuali e collettivi sono al centro dell’attenzione dei “moralistes”… Nelle “Illusioni perdute” Balzac farà derivare il romanzo moderno dalla grande tradizione “moraliste”. Scriverà: «Il romanzo abbraccia il fatto e l'idea con invenzioni che esigono lo spirito di La Bruyère e la sua morale incisiva». Perché questo aveva fatto Balzac: condurre a termine il lavoro di scavo e di disvelamento dei “moralistes” classici del Grande Secolo, e coniugare questo lavoro di estrema raffinatezza intellettuale coi mezzi dozzinali e popolari offerti dal genere romanzo.  Da qui l’andamento della sua prosa deliziosa che alterna una massima alla La Rochefoucauld  alla descrizione di un personaggio popolare come Vautrin…

Il limite della lingua italiana



"Non si può pretendere di essere un grande poeta bulgaro e di successo", ammoniva Eugenio Montale. La lingua è un limite oggettivo, nonostante le traduzioni, per la diffusione di  un'opera. Quella italiana è parlata dallo zerovirgola nel mondo e quella bulgara dallo zerozerovirgola. I successi planetari non possono che essere inglesi o anglosassoni (in attesa che i cinesi comincino a leggere e la smettano di assediare il mondo con i loro manufatti). Dai tempi della Regina Elisabetta I, da quando l'Inghilterra sconfisse l'altra potenza continentale, la Spagna, la lingua parlata da una minoranza di persone abitanti un' isola flagellata dal maltempo si è diffusa nel mondo, e da allora ancora impera.  La lingua ha veicolato oltre alle narrazioni anche usi e costumi. Hanno così imposto gli alberi di Natale, Halloween, le saghe nordiche,  i maghetti e le sfumature di grigio e poi chissà cos'altro. Qualche critico intelligente,  George Steiner, l'ha fatto notare, ha cercato di segnalare i nostri Sciascia o Gadda, ma il limite della lingua sembra un insuperabile  handicap (parola inglese!).

Goethe e il romanticismo


Com’è noto, Goethe ebbe una fase romantica che coincise con l’adesione allo “Sturm und Drang” (tempesta e impeto). E’ la stagione giovanile del “Werther”. Successivamente egli si distaccò dal movimento romantico e assunse verso di esso un atteggiamento severo di dissenso quando non polemico. Goethe aveva scelto definitivamente il contenimento “classico “ delle passioni, il controllo sapiente delle  emozioni, l’irreggimentazione colta della sensibilità. Occorre, secondo lui, saper accettare i limiti della finitezza, anche filistea (Goethe fu responsabile a Weimar di una miniera a comprova che “si può essere poeti e pagare l’affitto”, come diceva Paul Valéry). Ma al di là delle formule stilistico-epocali (classicismo, romanticismo) resta la sostanza morale del suo atteggiamento.