lunedì 1 aprile 2013

Il limite della lingua italiana



"Non si può pretendere di essere un grande poeta bulgaro e di successo", ammoniva Eugenio Montale. La lingua è un limite oggettivo, nonostante le traduzioni, per la diffusione di  un'opera. Quella italiana è parlata dallo zerovirgola nel mondo e quella bulgara dallo zerozerovirgola. I successi planetari non possono che essere inglesi o anglosassoni (in attesa che i cinesi comincino a leggere e la smettano di assediare il mondo con i loro manufatti). Dai tempi della Regina Elisabetta I, da quando l'Inghilterra sconfisse l'altra potenza continentale, la Spagna, la lingua parlata da una minoranza di persone abitanti un' isola flagellata dal maltempo si è diffusa nel mondo, e da allora ancora impera.  La lingua ha veicolato oltre alle narrazioni anche usi e costumi. Hanno così imposto gli alberi di Natale, Halloween, le saghe nordiche,  i maghetti e le sfumature di grigio e poi chissà cos'altro. Qualche critico intelligente,  George Steiner, l'ha fatto notare, ha cercato di segnalare i nostri Sciascia o Gadda, ma il limite della lingua sembra un insuperabile  handicap (parola inglese!).
Non è solo un problema di lingua ma anche di contenuti, più o meno fruibili da mentalità "altre". Ad esempio pochi sospettano  che il "neorealismo" italiano è tanto piaciuto all'estero  proprio perché confermava  o rispecchiava (senza volerlo) uno stereotipo di un popolo un po' caciarone, un po' straccione, un po' ladro ( di biciclette). Anche gli elementi attesi (in termini di stereotipi certo) decidono della fortuna di un’opera. Il Michelangelo Antonioni tormentato da angosce esistenziali come un Bergman mediterraneo, se da noi veniva sdoganato come le dérnier cri della modernità (vedete anche noi siamo moderni e angosciati, siamo esistenzialisti pure noi!)  all’estero suscitò qualche perplessità (vedi Jean-François Revel, Pour l’Italie, bisognerebbe vedere cosa ne ha scritto un suo estimatore americano come Seymour Chatman, però). È stata tanto forte questa immagine dell’Italia neorealista che un cineasta certamente intelligente (anche se un po’ bollito negli ultimi anni) come Woody Allen, all’atto della pubblicità commissionatagli da una catena di supermercati ci ha rappresentati come nei  film degli  anni ’50 (che era il filtro attraverso il quale ci aveva visti probabilmente in qualche sala di cinema d’essai americana). Nell'operazione di "transplant" si perdono molte cose e se ne acquistano delle altre, spesso non consustanziali  all'opera, non nelle sue intenzioni.

Nessun commento:

Posta un commento