Trieste è un’altra, il recente saggio di Pietro Spirito
edito da Mauro Pagliai nell’intrigante collana
Le non guide si snoda come un
diario di viaggio suggestivo e personale attraverso la città di Trieste a
ricercarne la sua intima natura. “Trieste è un’altra” recita il titolo. In che
senso un’altra? È un’altra rispetto all’immagine stereotipata che ne abbiamo, è
un’altra perché non è la Trieste ufficiale ma quella città in parte
incomprensibile che si presenta alla vista dell’autore (non a caso affacciato
al belvedere della Napoleonica). Un autore che cerca, come in uno specchio
rotto, di ricomporre i frammenti per arrivare a un’immagine, a un senso, a
un’ipotesi definita. Ma un senso è difficile da trovare in una città che appare
morta come nel Porto Vecchio le rotaie e le traversine abbandonate. E proprio
il Porto Vecchio con la sua suggestione di binari morti che parlano di “un
matrimonio finito male, quello tra il governo portuale e le ferrovie dello stato”
la rappresenta bene e ci prospetta un
angosciante paesaggio da città fantasma, un “non luogo” che molti cineasti hanno scelto come sfondo per le loro storie di
celluloide (come forse un “non luogo” è anche la stessa Trieste con i suoi
spazi “pensati per lasciare la mente libera di credere che in fondo tutto è
possibile”). L’immagine che Trieste dà è in qualche modo l’immagine di una città
irrisolta, una città che vive in compagnia di fantasmi come quelli che popolano
i magazzini di Porto vecchio che un tempo ospitavano le derrate ed ora, con i sacchi
accatastati e vuoti, simboleggiano una ricchezza scomparsa e alludono a un
tempo in cui “la città respirava atmosfere universali e l’abbondanza delle
mercanzie parlava di un Occidente avviato a un progresso senza fine”. Trieste a
metà strada tra un passato glorioso e lontano e un futuro che appare incerto e
difficile.
Alla ricerca
di far combaciare i opposti, di dare un senso alle immagini che si moltiplicano
ma non si unificano in un tutto comprensibile e omogeneo lo scrittore percorre molti
luoghi significativi della città, dall’antica stazione ferroviaria di Campo Marzio
che sembra attendere ancora i treni dell’impero austroungarico, al gigante Ursus
che attende un improbabile riutilizzo, ai sotterranei e alle casematte della
guerra, ai resti di un confine che non c’è più. Trieste con le sue ingombranti tracce
di un passato che ha lasciato dovunque delle cicatrici, Trieste città
fluttuante ma ferma, Trieste che, sempre in Porto Vecchio ospita in alcuni
magazzini le masserizie degli esuli e in qualche modo esprime il reiterato
dramma che ha colpito tante persone nel dopoguerra, Trieste sede del Narodni
dom, luogo che conserva il ricordo dell’odio razziale che caratterizzò in
queste terre gli anni tra le due guerre ed ora ospita la Scuola superiore di
lingue moderne per interpreti e traduttori, dove i ragazzi di tutto il mondo
vengono ad imparare lingue diverse dalle loro “con la passione di chi in cuor
suo vede nella possibilità di una comunicazione globale l’unità del mondo”. Il
futuro dunque sembra nascere sotto migliori presagi, proiettato verso uno scambio
tra i popoli. “Osservo i ragazzi con gli Ipad, le cuffiette, i libri, i modi e
le mode del loro tempo. È tutto molto confortante. L’idea che i guasti della
Storia possano essere riparati, i cocci messi assieme, il vaso prezioso
ricostituito. Nulla può essere come prima, certo, ma dalle macerie può risorgere un presente nuovo
e migliore”.
Reportage
narrativo godibilissimo questo libro ci conduce in dieci tappe attraverso una
terra di frontiera “in bilico tra un passato mitizzato e un presente immobile”
e si conclude, non a caso, nel cimitero di Sant’Anna perché, per ricomporre i
frammenti di questo specchio rotto, per scoprire le mille anime di Trieste,
dobbiamo chiedere una sorta di avallo anche ai morti, “ai custodi della memoria
verso i quali, piaccia o meno, siamo sempre in debito”.
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