martedì 17 aprile 2012

Trieste è un’altra di Pietro Spirito di Marina Torossi Tevini


Trieste è un’altra, il recente saggio di Pietro Spirito edito da Mauro Pagliai nell’intrigante collana  Le non guide si snoda come un diario di viaggio suggestivo e personale attraverso la città di Trieste a ricercarne la sua intima natura. “Trieste è un’altra” recita il titolo. In che senso un’altra? È un’altra rispetto all’immagine stereotipata che ne abbiamo, è un’altra perché non è la Trieste ufficiale ma quella città in parte incomprensibile che si presenta alla vista dell’autore (non a caso affacciato al belvedere della Napoleonica). Un autore che cerca, come in uno specchio rotto, di ricomporre i frammenti per arrivare a un’immagine, a un senso, a un’ipotesi definita. Ma un senso è difficile da trovare in una città che appare morta come nel Porto Vecchio le rotaie e le traversine abbandonate. E proprio il Porto Vecchio con la sua suggestione di binari morti che parlano di “un matrimonio finito male, quello tra il governo portuale e le ferrovie dello stato” la rappresenta bene e ci prospetta  un angosciante paesaggio da città fantasma, un “non luogo” che molti cineasti  hanno scelto come sfondo per le loro storie di celluloide (come forse un “non luogo” è anche la stessa Trieste con i suoi spazi “pensati per lasciare la mente libera di credere che in fondo tutto è possibile”). L’immagine che Trieste dà è in qualche modo l’immagine di una città irrisolta, una città che vive in compagnia di fantasmi come quelli che popolano i magazzini di Porto vecchio che un tempo ospitavano le derrate ed ora, con i sacchi accatastati e vuoti, simboleggiano una ricchezza scomparsa e alludono a un tempo in cui “la città respirava atmosfere universali e l’abbondanza delle mercanzie parlava di un Occidente avviato a un progresso senza fine”. Trieste a metà strada tra un passato glorioso e lontano e un futuro che appare incerto e difficile.

Alla ricerca di far combaciare i opposti, di dare un senso alle immagini che si moltiplicano ma non si unificano in un tutto comprensibile e omogeneo lo scrittore percorre molti luoghi significativi della città, dall’antica stazione ferroviaria di Campo Marzio che sembra attendere ancora i treni dell’impero austroungarico, al gigante Ursus che attende un improbabile riutilizzo, ai sotterranei e alle casematte della guerra, ai resti di un confine che non c’è più. Trieste con le sue ingombranti tracce di un passato che ha lasciato dovunque delle cicatrici, Trieste città fluttuante ma ferma, Trieste che, sempre in Porto Vecchio ospita in alcuni magazzini le masserizie degli esuli e in qualche modo esprime il reiterato dramma che ha colpito tante persone nel dopoguerra, Trieste sede del Narodni dom, luogo che conserva il ricordo dell’odio razziale che caratterizzò in queste terre gli anni tra le due guerre ed ora ospita la Scuola superiore di lingue moderne per interpreti e traduttori, dove i ragazzi di tutto il mondo vengono ad imparare lingue diverse dalle loro “con la passione di chi in cuor suo vede nella possibilità di una comunicazione globale l’unità del mondo”. Il futuro dunque sembra nascere sotto migliori presagi, proiettato verso uno scambio tra i popoli. “Osservo i ragazzi con gli Ipad, le cuffiette, i libri, i modi e le mode del loro tempo. È tutto molto confortante. L’idea che i guasti della Storia possano essere riparati, i cocci messi assieme, il vaso prezioso ricostituito. Nulla può essere come prima, certo, ma  dalle macerie può risorgere un presente nuovo e migliore”.
Reportage narrativo godibilissimo questo libro ci conduce in dieci tappe attraverso una terra di frontiera “in bilico tra un passato mitizzato e un presente immobile” e si conclude, non a caso, nel cimitero di Sant’Anna perché, per ricomporre i frammenti di questo specchio rotto, per scoprire le mille anime di Trieste, dobbiamo chiedere una sorta di avallo anche ai morti, “ai custodi della memoria verso i quali, piaccia o meno, siamo sempre in debito”. 

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