lunedì 2 aprile 2012

Marina Torossi Tevini, Le parole blu, Campanotto 2010





“L’Occidente e parole” di Marina Torossi  Tevini: una raccolta di racconti scanditi da continui interrogativi, interrogativi a cui l’autrice si impegna a dare risposta attraverso un inesausto spasmodico sforzo di indagine e riflessione. Uno sforzo in cui ella riesce a coinvolgere a pieno il lettore, dal quale è come se si facesse scortare passo dopo passo attraverso il processo conoscitivo e lungo l’avventuroso percorso che dovrebbe condurci a decifrare il mistero della condizione umana. Anche se,  lo sappiamo, si tratta di un percorso in cui ci si scontra con molte porte chiuse. Ma pure quando il suo ragionamento non può approdare a una conclusione, perché, niente da fare, il dilemma risulta insolubile, ella non per questo cessa di pilotare e stimolare il lettore, associandolo non tanto alla propria impotenza quanto alla propria ribellione contro questa impotenza. Insomma un libro dalla cui lettura si ricava l’impressione che all’autrice non sia sufficiente capire, ma che ella avverta l’urgenza, e quasi il dovere, di aiutare gli altri a capire, per cui, ecco, il suo atteggiamento credo sia lecito definirlo “didattico”. Consapevolmente, dichiaratamente “didattico”. Ma, attenzione, al vocabolo “didattico” non dobbiamo attribuire nessuna valenza negativa. Anzi. In un mondo in  cui così di frequente ci si sottrae alla responsabilità del giudizio, si glissa, ci si schermisce di fronte alla necessità di prender posizione, un libro in cui senza mezzi termini, senza giri di parole ci si confronta con i più grandi temi  - la disparità sempre crescente tra gli umani, il bisogno che abbiamo degli altri e la difficoltà, spesso insormontabile, che incontriamo nel tentativo di dialogare e intenderci (incomprensione che drammaticamente si accentua nel rapporto tra  generazioni diverse), e il perverso dilagare del consumismo, e la pecorile tendenza all’omologazione, e come i più a ogni costo vadano reclamando certezze, certezze quali che siano, anche se approssimative, discriminatorie,  banalizzanti,  mentre bisognerebbe avere il coraggio di convivere col dubbio, il dubbio che, certo,  è assai faticoso da gestire, ma risulta indispensabile a salvarci da ogni tipo di oscurantismo – un libro così, dicevo, non può che essere benvenuto. Benvenuto perché utile, benvenuto perché  necessario. Ecco: dovrebbero scriversene più spesso di libri del genere. 

Ma, fatta questa considerazione,  è il caso di sottolineare come  tra i molti temi trattati  ce ne siano due che prevalgono e potentemente si impongono all’attenzione del lettore. Evidentemente perché, in un libro che pure appare tutto dettato da una irrefrenabile “passione”  intellettuale, sono i più appassionatamente sentiti dall’autrice: il tema della necessità della comunicazione  e il tema della violenza (con cui fa tutt’uno quello della follia).
Dunque: il discorso sulla necessità della comunicazione. La quale dovrebbe trovare il suo campo di espressione più idoneo e fertile nella scuola. E allora il discorso sull’insegnamento. L’insegnamento  sentito come missione,  missione alta e nobile quanto forse nessun’altra, e perciò amato, vissuto con adesione totale della mente e del cuore. E tuttavia al tempo stesso degradato da una serie di cause contro cui il singolo docente, a meno di non voler fare il moderno don Chisciotte, non è assolutamente in grado di combattere (e qui l’autrice ha il coraggio  di denunciare anche quelle verità scomode che in genere vengono sottaciute, per esempio che molti giovani si ritraggono di fronte alla vera “libertà interiore”,  ed è da questa paura che prende corpo il loro formalismo, il loro convenzionalismo), e perciò sofferto con umiliazione e con rabbia, nella consapevolezza della propria impotenza.  Una sofferenza, ci racconta la Torossi Tevini, di cui si può anche morire.
E il discorso sulla violenza. Una violenza che, non credo casualmente, l’autrice ci descrive rivolta sempre contro la donna. La donna che ha creduto di poter essere arbitra delle proprie scelte, la donna che ingenuamente ha accettato di fidarsi, la donna che non ha capito di avere accanto il “mostro”. E anche nell’unico racconto in cui, a esercitarla questa violenza, a voler dare la morte, è stata una creatura di sesso femminile, beh, la responsabilità vera del crimine è forse da attribuire a un “lui”, a un lui che ha saputo restare dietro le quinte, l’uomo che la ha traumatizzata sconvolgendole la mente. Perché, come ho già accennato, per l’autrice violenza e follia sembrano essere strettamente legate, e la bramosia di sangue scaturisce sempre da un ottenebrarsi della mente, da un offuscarsi della consapevolezza. Insomma pagine da cui sembra trapelare una infinita pietas. Pietas per le compagne di Adamo, per tutte noi che, dopo  tante lotte, tanti dibattiti,  tanti proclami, ci siamo illuse di essere ormai liberate, e invece sulla nostra pelle scopriamo di venire ancora ritenute possesso di chi dice di amarci o averci amate, ma pietas anche per Adamo, Adamo che, malgrado le sue ostentazioni di forza,  spesso è disperatamente fragile, disperatamente fragile e disorientato.
In definitiva un libro che risulta amaro e inquietante ma che è certo non si lascerà agevolmente dimenticare. Anche in virtù di una scrittura in cui alla dinamica scioltezza dei dialoghi sapientemente si alterna la complessità sintattica delle riflessioni.

 Giovanna Mozzillo

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