“L’Occidente e parole” di Marina Torossi Tevini: una
raccolta di racconti scanditi da continui interrogativi, interrogativi a cui
l’autrice si impegna a dare risposta attraverso un inesausto spasmodico sforzo
di indagine e riflessione. Uno sforzo in cui ella riesce a coinvolgere a pieno
il lettore, dal quale è come se si facesse scortare passo dopo passo attraverso
il processo conoscitivo e lungo l’avventuroso percorso che dovrebbe condurci a
decifrare il mistero della condizione umana. Anche se, lo sappiamo, si
tratta di un percorso in cui ci si scontra con molte porte chiuse. Ma pure
quando il suo ragionamento non può approdare a una conclusione, perché, niente
da fare, il dilemma risulta insolubile, ella non per questo cessa di pilotare e
stimolare il lettore, associandolo non tanto alla propria impotenza quanto alla
propria ribellione contro questa impotenza. Insomma un libro dalla cui lettura
si ricava l’impressione che all’autrice non sia sufficiente capire, ma che ella
avverta l’urgenza, e quasi il dovere, di aiutare gli altri a capire, per cui,
ecco, il suo atteggiamento credo sia lecito definirlo “didattico”.
Consapevolmente, dichiaratamente “didattico”. Ma, attenzione, al vocabolo
“didattico” non dobbiamo attribuire nessuna valenza negativa. Anzi. In un mondo
in cui così di frequente ci si sottrae alla responsabilità del giudizio,
si glissa, ci si schermisce di fronte alla necessità di prender posizione, un
libro in cui senza mezzi termini, senza giri di parole ci si confronta con i
più grandi temi - la disparità sempre crescente tra gli umani, il bisogno
che abbiamo degli altri e la difficoltà, spesso insormontabile, che incontriamo
nel tentativo di dialogare e intenderci (incomprensione che drammaticamente si
accentua nel rapporto tra generazioni diverse), e il perverso dilagare
del consumismo, e la pecorile tendenza all’omologazione, e come i più a ogni
costo vadano reclamando certezze, certezze quali che siano, anche se
approssimative, discriminatorie, banalizzanti, mentre bisognerebbe
avere il coraggio di convivere col dubbio, il dubbio che, certo, è assai
faticoso da gestire, ma risulta indispensabile a salvarci da ogni tipo di
oscurantismo – un libro così, dicevo, non può che essere benvenuto. Benvenuto
perché utile, benvenuto perché necessario. Ecco: dovrebbero scriversene
più spesso di libri del genere.
Ma, fatta questa considerazione, è il caso di
sottolineare come tra i molti temi trattati ce ne siano due che
prevalgono e potentemente si impongono all’attenzione del lettore.
Evidentemente perché, in un libro che pure appare tutto dettato da una irrefrenabile
“passione” intellettuale, sono i più appassionatamente sentiti
dall’autrice: il tema della necessità della comunicazione e il tema della
violenza (con cui fa tutt’uno quello della follia).
Dunque: il discorso sulla necessità della comunicazione. La
quale dovrebbe trovare il suo campo di espressione più idoneo e fertile nella
scuola. E allora il discorso sull’insegnamento. L’insegnamento sentito
come missione, missione alta e nobile quanto forse nessun’altra, e perciò
amato, vissuto con adesione totale della mente e del cuore. E tuttavia al tempo
stesso degradato da una serie di cause contro cui il singolo docente, a meno di
non voler fare il moderno don Chisciotte, non è assolutamente in grado di
combattere (e qui l’autrice ha il coraggio di denunciare anche quelle
verità scomode che in genere vengono sottaciute, per esempio che molti giovani
si ritraggono di fronte alla vera “libertà interiore”, ed è da questa
paura che prende corpo il loro formalismo, il loro convenzionalismo), e perciò
sofferto con umiliazione e con rabbia, nella consapevolezza della propria
impotenza. Una sofferenza, ci racconta la Torossi Tevini, di cui si può
anche morire.
E il discorso sulla violenza. Una violenza che, non credo
casualmente, l’autrice ci descrive rivolta sempre contro la donna. La donna che
ha creduto di poter essere arbitra delle proprie scelte, la donna che
ingenuamente ha accettato di fidarsi, la donna che non ha capito di avere
accanto il “mostro”. E anche nell’unico racconto in cui, a esercitarla questa
violenza, a voler dare la morte, è stata una creatura di sesso femminile, beh,
la responsabilità vera del crimine è forse da attribuire a un “lui”, a un lui
che ha saputo restare dietro le quinte, l’uomo che la ha traumatizzata
sconvolgendole la mente. Perché, come ho già accennato, per l’autrice violenza
e follia sembrano essere strettamente legate, e la bramosia di sangue
scaturisce sempre da un ottenebrarsi della mente, da un offuscarsi della
consapevolezza. Insomma pagine da cui sembra trapelare una infinita pietas.
Pietas per le compagne di Adamo, per tutte noi che, dopo tante lotte,
tanti dibattiti, tanti proclami, ci siamo illuse di essere ormai
liberate, e invece sulla nostra pelle scopriamo di venire ancora ritenute
possesso di chi dice di amarci o averci amate, ma pietas anche per Adamo, Adamo
che, malgrado le sue ostentazioni di forza, spesso è disperatamente
fragile, disperatamente fragile e disorientato.
In definitiva un libro che risulta amaro e inquietante ma
che è certo non si lascerà agevolmente dimenticare. Anche in virtù di una
scrittura in cui alla dinamica scioltezza dei dialoghi sapientemente si alterna
la complessità sintattica delle riflessioni.
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