Un rompicapo. Tale è per Sciascia la Sicilia nell’ultima intervista rilasciata a "Le Monde" il 6 ottobre 1989, un mese prima di morire. O meglio, un casse-tête si mostrava il suo rapporto con l’isola e la conseguente «difficoltà di essere siciliano» che egli così riassumeva: «amare un luogo e delle persone e detestarli allo stesso tempo, sentirsi simile e differente, volere e non volere». E se l’isola è un rompicapo per lo scrittore che più di ogni altro l’ha presa come un punto focale in cui rifrangere e riflettere tutti i vizi dell’intera penisola (La Sicilia come metafora, La palma va a nord) cosa potrà essere per tutti coloro, viaggiatori, giornalisti, osservatori che ne tentano una semplice lettura?
Ora, in questo sottile gioco mentale che è l’interpretazione della Sicilia, si pongono da una parte gli isolani, affetti da sicilianismo (più che sicilitudine, termine vagamente nobile inventato da compiaciuti bellettristi), ossia quella vera e propria ideologia che pone l’isola al centro di un ineffabile mistero storico, un’eccezione inaccessibile, inspiegabile a tutti coloro che per loro sfortuna siciliani non sono; e dall’altra i continentali, o tutti coloro che assistiti da semplice buona volontà ne tentano una decrittazione, visti quasi sempre con sospetto dagli osservati.
L’incontro-scontro tipico – tale reso dalla letteratura– è quello del Gattopardo con il messo sabaudo Chevalley. È un modello che pone il Gattopardo-siciliano in una dimensione mitica, favolistica, nella nebbia numinosa di una impenetrabilità che si nega all’interpretazione. Anzi ogni tentativo di spiegazione – le nequizie della storia, i popoli invasori, la violenza del paesaggio, la crudeltà del clima, la superbia degli isolani che si credono Dei, la terribile insularità d’animo –, non fa che aggiungere enigma a enigma. Oramai è questo un discorso ampiamente codificato (e per questo oso dire che Il Gattopardo, così come interpretato dalla vulgata, è stato un danno aggiuntivo per la Sicilia) che si ripete anche nei salotti e sotto gli ombrelloni. Di contro c’è il forestiero, il buon Chevalley di Montezurlo, non poco ridicolizzato nel romanzo, stretto alla sua cartelletta coi grigi incartamenti, intristito nelle sue «piccole virtù» sabaude che propone al Gattopardo un altro aperçus, meno magniloquente, basso-mimetico: nientemeno che la discesa dal Mito e l’ingresso nel flusso della storia universale. Ecco, l’ideologia sicilianista alla Gattopardo si sostanzia di quel permanente stato di eccezione e si pone come una rappresentazione mentale nutrita da mitologemi invocati per sottrarsi alla vera spiegazione dell’enigma isolano, che è banale, che è soprattutto socio-economico: il defaultdella ruling class, della classe dirigente da lui rappresentata, il ceto nobiliare, che aveva preferito la nobile astronomia alla vile coltivazione del baco da seta, per dire.
Invero, nulla può resistere a una investigazione intellettualmente sagace, a una indagine sul campo scrupolosa, a una osservazione attenta e partecipata. Sono gli strumenti dell’antropologo o semplicemente gli atti ermeneutici con cui l’uomo colto incontra l’“altro”, sia esso il melanesiano o il palermitano. Uno sguardo, il suo, necessariamente pre-informato, sostenuto ossia da quei pregiudizi di alto rango che sono le categorie a priori, che chiedono solo di essere verificate. Al giovane Tocqueville, per esempio, bastò un viaggio in Sicilia, una sorta di prova generale della sua ricognizione dell’America, per comprendere alcune dinamiche di fondo della società e dell’economia siciliana, non ultimo lo stato di benessere procurato dalla piccola proprietà contadina nella fascia pedemontana etnea rispetto all’abbrustolito e desolato latifondo. E anche a un livello di osservazione meno intellettualmente risonante non è stato difficile per cineasti continentali acuti e appassionati come Damiano Damiani o Pietro Germi cogliere il cuore metaforico dell’isola o alcuni suoi tratti caratteristici.
Lo schema Gattopardo-Chevalley si ripete tutte le volte che un giornalista continentale, preferibilmente piemontese, è inviato in Sicilia a riferire il rompicapo: ieri Tommaso Besozzi (vigevanese) o il cuneese Giorgio Bocca, oggi il langarolo Aldo Cazzullo. È un po’ il ritorno di Chevalley, centocinquant’anni dopo. Qui entrano in gioco non solo categorie antropologiche come il regard éloigné, lo sguardo distanziato di Lévi-Strauss (altrimenti non si capirebbe la necessità dell’inviato, uno che viene da fuori, perché il corrispondente locale c’è, ed è anche bravo), ma soprattutto categorie narratologiche: la voce che viene da fuori a interpretare e poi a raccontare è assimilabile alla voce narrante esterna alla fabula e della quale non è fra i protagonisti (narratore eterodiegetico ed extradiegetico, li chiama Gérard Genette in FigureIII), – e quindi, sembrerebbe, dotata di maggiore autorevolezza.
È una bella disputa infinita questa: chi meglio del melanesiano può dire del melanesiano? «Quello che conta – diceva infatti Marcel Mauss – è il melanesiano, di questa o di quell’isola». E aggiungeva Lévi-Strauss: «contro il teorico, l’osservatore deve avere sempre l’ultima parola; e, contro l’osservatore, l’indigeno», sollevando il dubbio che «non sapremo mai se l’altro, con cui non ci possiamo mai confondere, opera, in base agli elementi della sua esistenza sociale, una sintesi esattamente sovrapponibile a quella da noi elaborata» (Razza e storia).
Anche agli inizi dello studio dei “caratteri nazionali” si ebbe un piccolo scontro tra Madame deStaël e Giacomo Leopardi su chi fosse più titolato nella osservazione degli italiani. La prima, da straniera, considera questa sua una condizione privilegiata, portatrice di uno sguardo "persiano", quasi che l'estraneità assicuri uno sguardo immediatamente distanziato, oggettivo. Il secondo afferma che è «impossibile a uno straniero il conoscere perfettamente un'altra nazione, massime dopo non lunga dimora». Ma Leopardi esaminando in seguito i costumi dei propri connazionali, invocherà per sé «la libertà e sincerità con cui ne potrebbe scrivere uno straniero». Concluderà la disputa Jean François Revel (Pour l'Italie): «Abbiamo il diritto di giudicare lo straniero nella misura in cui egli cessa di esserci straniero e quando, pur compenetrandoci in lui, noi restiamo noi».
È sotto questo scenario mentale-culturale che bisogna leggere le corrispondenze di Aldo Cazzullo inviato in Sicilia dal Corriere (articoli del 19 e del 22 gennaio) per riferire del movimento dei “forconi”. Ancora un ritorno di Chevalley, dunque. Il suo referto è colto (parla di jacquerie), scritto in impressionistica e buona prosa italiana. Nei suoi lampi di stampa passano quelle facce di pupo dei maggiorenti della città. «Dal carcere è uscito Mannino –“al terzo mese cominciai a pisciare sangue”–, dopo anni di processi per stabilire se il suo soprannome fosse Lillo, come lo chiamano i parenti, o Caliddu, come dicevano i pentiti». Passa anche la faccia dell’ex sindaco Leoluca Orlando – fotografato in una “istantanea” di un grottesco indicibile–, «che vorrebbe candidarsi a sindaco per l' ennesima volta, colleziona invece nella sua villa liberty statuette di elefanti e ceramiche Florio (“il massimo sarebbe un elefante in ceramica Florio. Lo cerco da sempre. Mai trovato”). Passa il sindaco Cammarata «famiglio di Micciché, famiglio di Dell' Utri, famiglio di Berlusconi. “Nuddu ammiscatu cu' nenti” lo definisce un ambulante al mercato del Capo: il Nulla. Poi ride spalancando la bocca sdentata». Ecco, questa immagine fa pensare subito al remake di una posa stilistica alla Giorgio Bocca (uno che aveva capito davvero tutto, però) a cui è sfuggito: «Una volta mi trovavo nei pressi del palazzo di giustizia. C’era una puzza di marcio, con gente mostruosa che usciva dalle catapecchie», frase che tante invettive ha suscitato in rete in coloro che non hanno seguito il lavoro di Bocca in tutti questi anni, un giornalista dalla prosa tagliente e in ultimo umorale e bisbetica, un azionista deluso e irritato dall’esito della nostra (dis)unione nazionale, e per questo particolarmente aspro nelle sue invettive. Certo il popolino siciliano non è di alto lignaggio iconografico, né più né meno dei montanari dell’arco alpino. Ci si consola pensando che i bei picciotti siciliani (come il bandito Giuliano o lo showman Fiorello) o le “Malene” di Tornatore, sono stati posti al centro del glamour dello stilista Dolce). Continua Cazzullo: «La Palermo del 2012 ha angoli di bellezza struggente e altri da Terzo Mondo. Impossibile restituire con le parole l'incanto dei mosaici della Cappella Palatina appena restaurati; poi esci, entri nei vicoli, e a duecento metri dalla sede del Parlamento più antico e più pagato al mondo ti inoltri tra le macerie dei bombardamenti del ' 43, entri in una stalla con abbeveratoio, biada e tutto, cammini su selciati da asfaltare, avanzi a zigzag per evitare l'immondizia».Occorre forse rammentare che in alcuni passi del Gattopardo – specie quando il Principe lascia i tuguri dove furtivamente incontrava le sue amanti popolane – vi sono descritte situazioni analoghe?
Il registro stilistico di Cazzullo vira tra l’impressionistico e il barocco mimetico (a causa del barocco sovrabbondante circostante) e non credo che si possa fare di più o di meglio nel cogliere una realtà sconcertante – come quella di certi angoli di Catania o di Palermo – per chi è abituato alle aiuole pettinate di Lecco o di Varese. Qualcuno se n’è risentito, e allora occorre ricordare ancora quel brano del Gattopardo: «rimarranno convinti che il loro è un paese come tutti gli altri, scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la stramberia fuori».
Ai siciliani sinceramente preoccupati del futuro della propria terra questi memento venuti da fuori sono delle sveglie che si aggiungono a quelle che, da tempo, essi hanno puntato sul proprio vigile sonno più o meno da Dei.
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