Pietro Citati |
Il critico Citati può piacere o no, e a me certamente non piace per quello stile dolciastro in perenne estasi e sorretto dalla "sindrome del cuculo" (quella di covare uova altrui), e con la sgradevole conseguenza che i suoi toni laudativi ti inducono quasi a rinnegare uno scrittore da te lungamente amato (vedi la sua biografia di Tolstoj) se solo passa per la labbra tumide e per la penna slombata di un critico come lui. Infatti, nelle conseguenti triangolazioni mentali che insorgono ti dici che non è possibile che possa piacere a te ciò che piace a lui, che non può esserci anche in te quella forma di spiritualismo compiaciuto, ma anche di realtà e simulazione, di verità e “teatro” che una volta passava sotto il termine di gesuitismo …
Sicuramente c’è nell’uomo anche il gusto estenuato e camaleontico di assumere tutte le vesti (questa è la volta del prete evidentemente) e di tentare tutti gli stili, e quindi è facile scorgere sottotraccia che più che la voglia di ammollarti una predica prevale in lui il puro gusto del travestimento letterario, la voglia di cantartela in tutte le lingue e stili, dal felibrismo allo stile oratorio à la Bossuet, essendo Citati un versipelle e compiaciuto scrittore nella più pura tradizione dell’abatinismo letterario italiano, quel tipo di letterato che portava un critico di tutt’altra tempra come Francesco De Sanctis alla più scorata disperazione intellettuale quando, in quella magistrale rassegna del carattere nazionale che è la sua Storia della letteratura italiana, processava tutti i Citati della tradizione letteraria italiana, tutti quei Citati di sempre che inducono gli studenti italiani a scappare in ogni dove pur di non incontrarli. Tutti quei Citati che ti mettono in improvviso allarme quando ti fanno temere che ci sia un Citati anche in te…
Ma tant’è. Proviamo a credere che invece di un mero esercizio di stile ci siamo imbattuti in un contributo chiarificatore, sensato, meditato e sincero di critica culturale su uno dei capisaldi della nostra cultura: il Vangelo e Gesù Cristo.
Non tutto il Vangelo ovviamente, ma un passo che coinvolge e sconvolge il nostro bellettrista, quel Mt 11,25-30 che riporto per intero per meglio capirci : «Io ti glorifico, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli (1). Sì, Padre, perché così piacque al tuo cospetto. Ogni cosa mi è stata rivelata dal Padre mio. E nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete affaticati e gravati, e io vi ristorerò. Prendete su voi il mio giogo, e imparate da me, poiché io sono mite e umile di cuore. E troverete ristoro per le vostre anime. Poiché il mio giogo è soave e il mio peso è leggero».
In questo passo Citati scorge il “paradosso del Vangelo” che avrebbe rovesciato il mondo per due ragioni sostanzialmente: a) Cristo ha nascosto la verità agli intelligenti e ai sapienti e l’ha rivelata agli umili e ai piccoli; b) il giogo della religione (cristiana) è leggero.
Ora, quanto al primo punto fa specie che un letterato, al culmine di una superfetazione mentale, determinata da una montagna di libri letti, giochi con il proprio io magnificando il semplice, l’umile e il bambinesco. Ma, al di là di questo ennesimo travestimento (l’intellettuale che si commuove sull'immagine-concetto dei népioi, dei bambini, cui Cristo nel Vangelo riserva forme privilegiate di accesso alla verità) fa specie che il letterato nulla abbia da dire sul fatto che la lingua in cui è stato scritto il Vangelo non era quella di Cristo, e che ogni ricamo sulle parole greche - ce ne sono tre più avanti su anapáusis, tapeinós e néuios -, non ha nulla a che vedere con Cristo, ma con i suoi ellenizzanti cancellieri che scrivevano in quella lingua franca, il greco appunto, la lingua più espressiva e colta offertaci dalla Antichità. Cristo parlava l’aramaico, una lingua parlata da pochi, e non sappiamo, e mai sapremo forse, quali termini egli impiegasse in quella sua lingua materna nell' esprimere le immagini e i precetti della sua predicazione (2).
Si potrebbe quindi avanzare, venendo alla sostanza della questione, l’obiezione che se non Cristo, sicuramente la Chiesa, ha fatto di tutto per allontanare i népioi dalla verità in vari modi: a) impedendo ai fedeli un accesso alla lettura e una interpretazione diretta dei sacri testi; b) spezzando il pane della verità in una lingua, il latino, che per secoli tutti i fedeli, népioicompresi, non comprendevano. Famoso è l’episodio, riportato da Gramsci in una lettera dal carcere, di una sua zia che favoleggiava di una Donna Bisodia che altro non era che il dona nobis hodie del Vangelo che nessuno s’era mai curato di tradurle.
E poi: ho molti dubbi che il mondo sia stato davvero sconvolto dal primato degli umili. Il mondo, come ognun sa, è maledettamente complesso, esso è come la vita, è res severa, e il tentativo di penetrare i suoi segreti chiede ben attrezzate organature mentali e uno sforzo continuo, per nulla facile, di acquisizione di conoscenze e l’elaborazione di quei costrutti mentali che, almeno dai tempi di Socrate, vanno sotto il nome di concetti. Questo lavoro incessante si chiama pensiero (se il termine cultura vi mette in allarme) ed è un processo doloroso e allo stesso tempo grandioso: è ciò di cui l’uomo adulto di oggi che si voltasse indietro verso il népios che egli era nell’Età del Neolitico - in cui il processo di incivilimento ha avuto una forte accelerazione-, avrebbe giustamente di che menare vanto. Fossimo rimasti all’idiotismo del Vangelo (3) non saremmo qui a estasiarci sulla esaltazione dei népioi, dei bambini. C’è in Cristo, o meglio nel Cristo che emerge dai Vangeli, un diffuso anti-intellettualismo, di cui molti teologi (cioè dei raffinatissimi e coltivatissimi specialisti di cose di Dio, tutt’altro che népioi) si compiacciono. D’Holbach nella sua Storia critica di Gesù Cristo o analisi ragionata dei Vangeli, attribuisce l’anti-intellettualismo di Cristo a una scaltra operazione demagogica per catturare i favori di una popolazione analfabeta ricorrendo al linguaggio figurato delle parabole, una forma particolare di comunicazione tipicamente orientale. Strategia molto efficace perché, da sempre, formule e immagini sono accessibili più dei ragionamenti e dei concetti.
Ma a questo riguardo, a Cristo, nella nostra tradizione occidentale, si oppone Socrate, cui forse più propriamente si deve lo scandalo di aver dato la scalata al mondo e alla conoscenza. Sia Cristo che Socrate sono i due omenoni che reggono, come dei pilastri, la nostra civilizzazione culturale occidentale: il pilastro giudaico- cristiano e quello greco-latino. Il parallelo tra i due è stato magistralmente condotto da Hegel negli Scritti teologici giovanili e da George Steiner in Passions impunies.
Cristo, partendo dal presupposto che la sua è una verità rivelata, ci propone (e talora ci impone - “Io sono la via, la verità e la vita”, Gv 14,6 ) - di credere. Socrate che non ha presupposti ci dice che la verità è una scepsi costante e senza fine e che di una cosa sola è certo: che sa di non sapere; ci esorta a essere curiosi, a non farci abbindolare dal primo predicatore che passa, a fare continue domande (ti estin? Che cos’è questo?), a investigare la realtà partendo dal semplice per arrivare al complesso, a scoprire le cause partendo dagli effetti, a suddividere (diàiresis) le questioni complesse per meglio dibatterle, ad avanzare nella conoscenza facendo appello alle nostre risorse intellettuali: in una parola ci esorta unicamente a pensare.
Il parallelo tra Socrate e Cristo, tra credere e pensare, attraversa tutto il nostro mondo Occidentale fin dalle origini. E resta mia ferma convinzione che se siamo ciò che siamo lo dobbiamo non certo all’idiotismo cristiano, ma alla forza tranquilla della investigazione socratica.
Sia Cristo che Socrate non hanno lasciato nulla di scritto. Preferivano la comunicazione verbale, destinata all’ascolto ( acroamatica si diceva nell’Antichità), a quella scritta. Entrambi si circondavano di discepoli; entrambi non lavoravano e andavano a zonzo (ma Socrate batteva le strade della città metropolitana Atene, Cristo preferiva per lo più le campagne o piccoli borghi della Galilea, dove poteva imbattersi più facilmente in persone incolte, alla larga dunque dagli intellettuali); entrambi furono processati e mandati a morte non senza condividere una singolare analogia: un’ultima cena coi propri seguaci. Ma qui cessano gli accostamenti analogici. Socrate non aveva verità da rivelarci, verità che venissero da fuori dell’uomo, che promanassero da divinità ad esempio. Aveva certamente un dàimon che lo ispirava, ma nulla a che vedere con la divinità. Socrate faceva appello alla risorse interiori dell’uomo: diceva che la verità era dentro l’uomo, che essa attendeva soltanto di essere estratta come faceva l'ostetrica che levava il bimbo dalla gestante. Definiva la sua tecnica investigativa maieutica. Grande era per lui l’importanza del dialogo: perché dal dibattito delle verità soggettive contrapposte si accedeva a un livello superiore di conoscenze, che potevano ambire all’oggettività, o a un punto di vista in cui si poteva scorgere un accordo sulle cose del mondo, per mezzo delle tecniche utilizzate per conoscere e parlare (eristica, retorica, ecc) e avendo come fine le regole del vivere associati, l’etica e la politica. Socrate usava il concetto (H. Maier, nel suo Socrate, 1913, dava il filosofo greco quale "scopritore" del concetto). Cristo invece si avvaleva delle metafore variopinte, delle parabole: una forma orientale di comunicazione (A. De Gubernatis, Storia universale della letteratura, 1883-1885). Socrate privilegiava il brachilogio (domande semplici e brevi), Cristo il macrologio, la concione, il sermone ispirato e suggestivo. Socrate parlava all’individuo, dialogava con il singolo interlocutore occasionale, non saliva sui monti, non parlava dall’alto o montava sugli asinelli per farsi vedere dalle folle. Cristo parlava alle moltitudini, che ammaestrava, preferibilmente ponendosi su un poggio, per meglio dominare l’uditorio.
Ma su una cosa il dissidio tra i due è palese. L’autonomia è l’obiettivo di Socrate . L’eteronomia quello di Cristo, e le parole di quest'ultimo sono inequivocabili in tal senso. (Testo CEI 2008: « Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. Mt 7,21; « Perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre», Mt 12,50. «Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno». Gv 6,40).
Socrate non voleva convincere nessuno, non aveva pretese di imporre il proprio punto di vista sugli altri e agli altri, anzi, stimolava il singolo a cercare dentro di sé il proprio punto di vista. Cristo invece voleva imporsi (“Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde". Mt 12,30; Lc 11,23) e fare proseliti. Mandò perciò gli apostoli in giro, in predicazione itinerante, a diffondere la sua buona novella.
Sullo spirito del proselitismo del cristianesimo Hegel ha parole nette e chiare, e per certi aspetti durissime; parole nelle quali, vedremo, si appaleserà che il giogo da Cristo proposto, e da Citati magnificato, è tutt’altro che leggero.
Nello scritto La positività della religione cristiana (redatto nel 1795-6 con un rifacimento del 1800) poi pubblicato da Herman Nohl (1907) negli Scritti teologici giovanili(4), Hegel rimprovera al cristianesimo di essere una religione positiva. La positività del cristianesimo è qualcosa che rimanda al suo contrario, alla natura. È positivo ciò che non è conforme alla natura e alla ragione e che non promana dall’uomo ma da una autorità esterna. «Una fede positiva è quel sistema di principi religiosi che per noi deve avere verità perché ci è imposto da un’ autorità». Ed Hegel, indagando su ciò che diede alla religione di Gesù l’occasione di diventare positiva, spiega che essa è scaturita dal fatto «o di non essere postulata ad opera della ragione e di essere persino in contrasto con questa, o, se anche in accordo, di essere tale da esigere di essere solo creduta solo sulla base dell’autorità».
Hegel individua alcuni profili sintomatici che rendono positiva (non conforme a natura e ragione) la religione cristiana. E sono: a) l’insistere di Gesù sulla propria autorità e non sulla bontà e moralità dei suoi precetti, allorché, di contro, i discepoli del filosofo greco «amavano Socrate per la sua virtù e per la sua filosofia e non la virtù e la sua filosofia per amor suo»; b) presentarsi come il Messia, o l’unto del Signore, dal che discende che il contenuto del suo messaggio derivi non dalla ragione, anzi, Hegel scrive acutamente: «richiamare solo la ragione avrebbe significato predicare ai pesci». «Gesù perciò esige attenzione per le sue dottrine non perché conformi alle esigenze morali del nostro spirito, ma perché volontà di Dio»; c) Gesù ricorre a “numeri speciali” quali sono i miracoli per assicurarsi maggior autorità presso i suoi seguaci. «Furono i miracoli accettati con fiducia e fede che fondarono la fede dell’autorità del loro autore e l’autorità di questi divenne il principio dell’obbligatorietà della morale», «così la dottrina morale di Gesù non fu più oggetto della venerazione degli uomini per se stessa, come doveva essere, procurando venerazione per il maestro, ma al contrario essa pretese rispetto solo a causa del maestro, e questi a causa dei miracoli»; d) Altro elemento della positività della religione cristiana è il proselitismo, il convincimento che solo chi la pensa come te può ricevere attenzione o rispetto. Ma c’è una sottile sfumatura, una specie di effetto “risonanza” in questo elemento di positività che è il proselitismo: « Ogni individuo si rafforza tanto più nella sua fede positiva quante più persone può convincere o vedere già convinte»; e infine Hegel ha un riferimento al “giogo leggero” della fede in Cristo, che potrebbe far sbarellare Citati. È un’osservazione acuta, molto sottile, quasi perfida: « Il giogo della fede, come ogni altro giogo, diviene più tollerabile quanto maggiore è il numero dei fedeli che lo portano, e nello zelo di far proseliti è spesso segretamente operante l’indignazione che altri voglia essere libero dalle catene che noi portiamo e da cui non abbiamo sufficiente forza di liberarci».
Alfio Squillaci
4) G.F.Hegel, Scritti teologici giovanili, trad. it. di N.Vaccaro e E.Mirri, a cura di E.Mirri, Guida Editore, Napoli 1972. Da questa edizione sono tratti, passim, i brani di Hegel messi tra virgolette nel testo.
1) La versione CEI 2008 riporta: “perché hai nascosto queste cose ai grandi e ai sapienti e le hai fatte conoscere ai piccoli”, quella del 1974: “perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli”, quella TILC – (Traduzione Interconfessionale in Lingua Corrente): “perché hai nascosto queste cose ai grandi e ai sapienti e le hai fatte conoscere ai piccoli”. Il testo originale greco: ὅτι ἔκρυψας ταῦτα ἀπὸ σοφῶν καὶ συνετῶν καὶ ἀπεκάλυψας αὐτὰ νηπίοις•
2) Un esempio del passaggio dall'aramaico al greco di un termine/concetto è quello di "debiti" e "peccati" nella formula evangelica di Lc 11,4 del Padre Nostro («e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore») dove il termine "peccati", con contenuto religioso, convive con il termine di "debitore", con contenuto commerciale, e il cui significato complessivo a prima vista risulterebbe non pienamente comprensibile. Mauro Pesce (in Da Gesù al cristianesimo, Morcelliana, 2011, p.61) chiarisce invece che «probabilmente il problema sorgeva nel passaggio al greco. In aramaico, ad esempio il termine "debito" aveva ormai assunto da tempo, oltre al suo significato economico-sociale, anche il significato di peccato religioso. In greco, invece, la parola "debiti" non veicolava questa complessità di significati religiosi e sociali strettamente connessi, ed era perciò opportuno scegliere il termine "peccati" più nettamente connotato in senso religioso».
3) Il termine “idiota” va preso nel significato antico di illetterato, privo di istruzione. Vittorio di Tunisi ci dice che nel VI secolo l’Imperatore Anastasio fece correggere i Vangeli come delle opere composte da sciocchi o da gente priva di Lumi. Messala consule, Anastasio Imperatore jubente, Evangelia tanquam ab IDIOTIS Evangelistis composita, reprehenduntur et emendantur. (Victor Tununensis, Historia Literaria, vol. 1).
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