Per chi amava tutta la filmografia di Peter Weir a partire da “Picnic ad Hanging Rock” fu duro leggere la forte e forse ingiusta stroncatura di Piergiorgio Paterlini de “L’attimo fuggente” che a lui parve « non solo un brutto film, un film che, dal punto di vista espressivo, scambia retorico con romantico, confonde tristissima melensaggine con commozione; ma è – sul piano che più ha impressionato, quello del rapporto professore-studenti, adulto-ragazzi – un film profondamente autoritario». Ma forse fu una stroncatura lungimirante, perché evidentemente prefigurava la perniciosa moltiplicazione dei professor Keating finanche a Scanzorosciate o a Fermo come questo prof. Catà, i cui compiti per l’estate rimbalzano su tutto il web in questi giorni. Lista di compiti che qualche commentino sullo stesso registro stilistico di Paterlini lo merita, anzi visto che il nostro Keating di Fermo si chiama Catà, richiede immediato ricorso proprio alle spezie pungenti dei Kataballontes (i discorsi demolitori) di Protagora.
La Frusta Letteraria
Blog del sito "La Frusta Letteraria"
mercoledì 1 luglio 2015
Berlinguer ti voglio bene?
Si può fare un film a-ideologico su un uomo politico che ha incarnato invece una precisa ideologia? Si se ti chiami Walter Veltroni. Dopo aver visto il suo documentario su Berlinguer («Quando c’era Berlinguer» ieri sera, su Rai 3), i quesiti sul politico (non sull’uomo che ci interessano meno) restano insoluti. Veltroni, che ha dichiarato di non essere mai stato comunista (cioè un’affermazione falsa o inverificabile), ha compiuto una operazione dolciastra e insincera, felpata ed elusiva, com’è il suo stile. Ha optato per la trattazione mediatica di un mito con musichette americane in sottofondo, non per la sua verifica storica, atteso che son passati già 31 anni dalla sua morte e tutto intorno a noi è cambiato. Non l’uomo politico quindi, ma il mito, com’è interiorizzato tuttora da vaste schiere di orfani già comunisti e oggi in difficoltà nel Pd non abbastanza “di sinistra”. Nessun interrogativo di fondo posto brutalmente sul partito che era diverso ma che era ugualeper dirla con Moretti. Nessun microfono offerto alla voce di storici non allineati e non pregiudizialmente avversi come Sergio Luzzatto o di critici come Silvio Pons o di chi semplicemente ha letto e interiorizzato il “Dimenticare Berlinguer” di Miriam Mafai: non una bieca destrorsa, ma la moglie intelligente, impaziente e coraggiosa di un leader glorioso del PCI, Giancarlo Pajetta.
Napoleone duecento anni dopo Waterloo
Sono stato qualche anno fa a Waterloo, della cui battaglia (18 giugno 1815) cade oggi il bicentenario. Ci sono dei campi marezzati di un verde intenso in un pianoro leggermente ondulato, e al centro del sito commemorativo – a due passi dalla trattoria che a quei tempi era un capanno dove Napoleone fece non ricordo più che cosa e dove noi filistei, ignari dei rimbombi della storia, mangiamo delle buone frites e beviamo la straordinaria birra belga – si erge questa artificiale “Butte du Lion” (la collina del Leone) che è dedicata a un principe della casa d’Orange qui ferito in battaglia. Ma un turista francese, tra il serio e il faceto, ci racconta una storiella che è una manifestazione buffa e fantasiosa dello sciovinismo in cui amano crogiolarsi i suoi connazionali. Secondo lui c’è sotto un gioco di parole: “Lion” sarebbe l’abbreviazione contraffatta di Napoléon, e siccome non si poteva collocarvi in cima la sua statua come in Place Vendôme a Parigi (visto che a Waterloo fu lo sconfitto e non il vincitore come ritenne l’esilarante top manager della Telecom Giuliani) si è giocato d’astuzia con l’installazione di un enorme leone di pietra. Come dire: il leone Napoleone qui dominò e trionfò indomito e invitto.
Non ci sono più i romanzi di una volta
I romanzi di una volta sono quelli a trama proliferante del Settecento o quelli fluviali dell’Ottocento. Non ci sono più perché allora i romanzi erano tutto: teatro, cinema, televisione, fumetto, internet, play station. Soddisfacevano da soli il nostro bisogno eterno di narrazione e il nostro immaginario di uomini in perenne ricerca di un Altrove. Un’avventura in quei romanzi iniziava, come nel “Tom Jones” o nel “Joseph Andrews” di Fielding, appena il protagonista metteva il piede fuori dalla porta di casa. Ed è già un’avventura per Oliver Twist raggiungere Londra a piedi dal suo paesello.
Quei romanzi non ci sono più per due ragioni. Una “a parte subiecti”, per dirla in maniera colta, cioè lato romanziere. È successo che ad un tratto i romanzieri cominciarono a rifiutare il “romanzesco”. Flaubert irride la sua eroina Emma Bovary che si abbevera a questi romanzi “romanzeschi”. Scrive di questi libri:
Non parlavano che di amore, di amanti e di innamorate, dame perseguitate che scomparivano in padiglioni fuori mano, postiglioni uccisi a ogni tappa, cavalli sfiancati in tutte le pagine, foreste tenebrose, cuori in tormento, giuramenti, singhiozzi, lacrime e baci, barche al chiaro di luna, usignoli nei boschetti, cavalieri coraggiosi come leoni, mansueti come agnelli, e virtuosi come nessuno, sempre ben vestiti e malinconici come sepolcri.
La navicella di Pietro - Note sulla Chiesa del nostro tempo
Parto da esperienze personali. Funerali in chiesa, rito ambrosiano. Il defunto si chiamava Giampaolo. Al momento della litania dell’invocazione dei santi, l’officiante cantilena stancamente prima “san Giovanni” e poi “san Paolo”, correttamente. Poi, inopinatamente, aggiunge anche un “san Giampaolo” cui i fedeli altrettanto distratti replicano con “Prega per noi”. Ora, san Giampaolo non esiste né nel martirologio né nel calendario romano. Insomma è un santo inesistente. Dentro di me ridacchio e mi meraviglio del basso livello di formazione del prete (una delle cinque piaghe della Chiesa, secondo Rosmini, quella della bassa formazione del clero). Ma lo scadimento della Chiesa deve essere sicuramente agli ultimi gradini oramai. In altro funerale al cimitero di Lambrate – un caldo asfissiante da non dirsi – noto che il prete combatte la calura con un ventilatore puntato solo su di lui. Ha modi spicci e frettolosi. Dalla manica aperta del piviale scorgo un braccio nudo e peloso. Alla fine del rito non credo ai miei occhi nel rilevare che il prete frettoloso di poc’anzi sfila proprio davanti a me in bermuda e casacca policromi, sandaletti, occhiali da sole e una dannata fretta di raggiungere qualche località marina. Forse non da solo. Nel primo funerale pressappochismo, nel secondo edonismo. Nessuno chiede il martirio a nessuno. Ci si chiede solo cosa succederà quando i funerali toccheranno alle Jessica, Samantha, Deborah? Saranno invocate sante hollywoodiane? Constato poi che non c’è futuro per una Chiesa disattenta o in infradito. Unicuique suum.
L'estate di Albert Camus, Vitaliano Brancati, Ercole Patti
Sono nato il giorno dell’inizio dell’estate, e a questa stagione mi lega un amore inconsulto. È per me, l’estate, quella che Stendhal chiamava una “promessa di felicità”: non la felicità in sé e per sé, ché da allievo di Benedetto Croce so non essere altro che “le contraire du sens de vivre” (proprio così, in francese l’ha scritta don Benedetto, col pudore del partenopeo sobrio che era). No, se la felicità è il contrario del senso di vivere, ciò vuol dire che la nostra esistenza si presenta, nel suo senso ordinario, come una forma latente di infelicità: un po’ di febbre, un’inquietudine dolente, un dolorino sottocutaneo, forse uno strascico atrabiliare dell’inverno del nostro scontento. Ma per fortuna io con Camus dico: « Ho imparato finalmente che nel cuore dell’inverno c’è in me un’estate invincibile »!
Sfoglio in questi giorni che mi separano dalla partenza per l’agognato mare alcune pagine, per me fraterne, di Albert Camus. “L’ estate e altri saggi solari” (Bompiani, 2003. Lode sia ai curatori Caterina Pastura e Silvio Perrella). Lo so da sempre: l’estate non è il luogo dell’idillio, e il mare non è sempre quel posto «ove l’uomo può sfuggire alla propria umanità e liberarsi con dolcezza da se stesso». Spesso il colore che richiama il sole non è l’oro delle trombe della solarità di Montale. È il nero. «In certe ore la campagna è nera di sole». Rileggo disordinatamente i passi letti e riletti e sottolineati di giallo nell’e-reader e che connetto alle sensazioni che da sempre mi procura la terra natale che mi appresto a raggiungere: «Con la pelle decifravo la scrittura del mondo», « un eccesso di beni naturali può inaridire», «dove tutto viene dato per essere tolto», «tutto qui respira l’orrore della morte in un paese che invita a vivere», «ogni cosa fatta qui mostra il disgusto della stabilità e la noncuranza del futuro», «Plotino? L’Unità si esprime qui in termini di sole e di mare», «in questo paese la tristezza non è mai altro che un commento alla bellezza».
Quanto pesano i caratteri nazionali nella crisi greca? Solo stereotipi?
L’aggettivo “levantino” riferito al popolo greco è apparso nettamente in questo articolo sul Sole 24 ore di Adriana Cerretelli dove si osserva che l’Europa ha continuato «a pretendere da un paese notoriamente levantino e disastrato un comportamento virtuoso e mitteleuropeo». Già.
Probabilmente i padri fondatori nel progettare l’Europa unita, dopo guerre e olocausti inenarrabili, hanno pensato giustamente più al futuro che al passato, a un’Europa da costruire, dal “carattere” unito se non unico, ove le omogeneità anche culturali fossero prevalenti sulle diversità o piuttosto nella speranza che in questo crogiolo si sciogliessero i singoli “caratteri nazionali”. Sbagliarono nel trascurare i fattori inerziali della storia mentale-culturale dei singoli paesi e nel credere che, giunti infine in Europa, un tedesco avrebbe cominciato a pensare da europeo e non da tedesco, e un greco avrebbe cessato di pensare e di agire da greco.
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